The past is never dead. It is not even past”, tradotto alla buona con “Il passato non muore mai, non è nemmeno passato”, ma vi suggerisco di ripetere a voce alta, in inglese, la perfezione di quella frase originale, anche solo per come suona in bocca, come fu ideata da quel mostro sacro di William Faulkner, per infilarla nel suo Requiem for a nun e dove c’è tutto il senso della grande narrativa che gli si confà. E della vita nostra. Di tutti. E della morte.

Questa citazione è all’interno della biografia Spare, una sorta di lascito del principe Harry. Infatti si scrive anche per non morire, può confermarlo chiunque scriva, che sia Faulkner o che siate voi che sono certa avrete scritto almeno dieci righe, prima o poi, con l’intenzione che diventasse un romanzo o un racconto, seppur da lasciare in un cassetto sperando qualcuno prima o poi l’aprisse. Ammettiamolo, anche inconsciamente, nell’imprimere sulla pagina un proprio pensiero c’è la volontà di lasciare un segno, per piccolo che sia, del nostro esistere.

Ciò che da sempre spaventa l’umanità è la morte, o meglio, la fine di tutto. Tanto che se ne sono dovute inventare di tutti i colori per ovviare. Non ce la facciamo a credere che non rimarrà niente di noi, allora scriviamo sperando che qualcuno ci continui a leggere quando non ci saremo più.

Poi c’è chi, nel nome dell’immortalità, ha soluzioni più pop e fa figli che a loro volta si spera faranno figli, confidando nell’illusione di una prosecuzione del sé; c’è chi compra case da lasciare un giorno a qualcuno; chi fa donazioni benefiche; chi mette bombe e si fa esplodere insieme a loro; chi regala inginocchiatoi alle Chiese e ci fa mettere il proprio nome su targhette d’oro; chi pianta alberi che cresceranno per centinaia di anni; per i più giovani, che ancora non hanno maturato il senso della fine, è qualcosa di più effimero: scrivono tag sui muri e in Tiktok, si fanno tatuaggi, fanno cazzate memorabili che saranno ricordate dalla cerchia di amici e parenti.

E’ la storia più vecchia del mondo, quella per tradizione orale come si faceva secoli fa, che poi è diventata ballata, canzone… ecco, eh sì, c’è chi si rende immortale con la musica. Una canzone è per sempre, un quadro, una scultura, un film, una serie tv, un romanzo. Tutto ciò, bello o brutto che sia, il che è soggettivo (ma questo è tutto un altro discorso, nemmeno tanto, perché è il succo del mio blog: FREAK IS GLAM, il mostro è affascinante) ma comunque è… per SEMPRE.

Tornando a Faulkner e a chi l’ha ossequiosamente citato nella biografia del principe Harry, ovvero JR Moehringer, il ghost writer, neanche tanto ghost, perché l’editore sa che la maggior parte dei lettori acquista Spare perché c’è la penna di uno dei migliori scrittori viventi, già autore di Open (la storia di Andre Agassi), nonché premio Pulitzer, bla bla… e insomma, in un passato che non è nemmeno passato, dunque è un presente immortale, c’è la chiave della biografia di questo ragazzone dai capelli rossi che dice di aver avuto la sfiga di nascere principe.

Se la biografia si fermasse a questo non lo sopporteremmo. Come se la mena, questo viziato, penseremmo. Ma poi, siccome quel regno di cui è principe è quello che gli ha ammazzato la mamma, qui, lo possiamo capire e allora stiamo dalla sua parte. Quello della vittima di un destino infame. Ci consola, ci fa dire: meno male non siamo lui.

E ci piace. Gli vogliamo subito un po’ bene. Vorremmo poter fare qualcosa per proteggerlo, lui: un principe. Sì proprio quello che la morale delle favole classiche volevano fosse il più figo di tutti, ora no, è, come suggerisce il titolo SPARE, parola inglese dagli innumerevoli significati: la riserva, la ruota di scorta, il minore, quello in più, l’avanzo, il pezzo di ricambio, il perdonare, il risparmiarsi, quello in prestito, quello che si può fare a meno di lui.

E questo principe diverso, opposto, minore lo amiamo perché “l’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini”, per citarne un altro (dai, sapete chi è) e noi ci sentiamo infiniti. Tutti abbiamo un bel passato che non vorremmo fosse mai passato. E diamo ragione a Faulkner. E diamo ragione a Moehringer/Harry quando ammette di essere una vittima, una vittima ricca, famosa e possibile, un comune mortale. E soprattutto quando ammette di essere triste.

Funziona sempre: anche i ricchi piangono. E noi vogliamo sapere perché. Mentre ci consoliamo e lo consoliamo come se fosse un fratello. Il nostro fratello orfano. Dunque… Spare: tre milioni e duecento copie vendute dopo solo 10 giorni dall’uscita. L’unico che ha venduto così in poco tempo è l’altro Harry: Potter. Se la giocano i due Harry. E a noi non rimane che giocare col senso di riscatto che accompagna tutto il romanzo. E di eternità.

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