Come definiamo un ombrello rotto? «Ombrello rotto». In italiano non abbiamo un nome per chiamare un oggetto che ha perso la propria funzione. Non definire, spesso vuol dire cancellare, lasciare in una soffitta, sotto la polvere, ciò che non ha più la sua mansione originaria.

Senza avere una funzione, si smette di esistere? Non si direbbe, perché da una casa in fiamme salveremmo la bambola senza occhi che ha il profumo di nostra madre; un oggetto senza funzione è ricordo, nostalgia.

Eppure, dall’albero incendiato, non più vivo, abbiamo scoperto il fuoco; la rottura è scoperta.

Rompendo un ombrello lo svestiamo della sua utilità ma gli doniamo la possibilità di essere qualsiasi cosa: un fermaporta, un portavasi, un cappello. La rottura è libertà.

Il taciuto gesto rivoluzionario, il sogno proibito di un membro della società del profitto, è rimpossessarsi delle cose spezzate, usurate, rotte, è ricordare e salvare ciò che non definiamo più. La moda, come arte e creatrice di immaginari, si è accorta di questo tacito desiderio e l’ha assecondato: ha volto lo sguardo verso chi per propria indole ha sempre recuperato le cose senza funzione. Upcycling viene chiamato dalle maison del lusso, per Warhol era lavorare con gli scarti, per le Sistaazhood è un modo di mostrarsi al mondo.

Sistaazhood è un gruppo di donne transgender di Cape Town, unite nell’attivismo per la legalizzazione del sex work, per il riconoscimento delle identità trans e l’accesso alle cure mediche e a dormitori per le donne transgender senzatetto. Le Sistaaz sono abituate a dar valore a ciò che è stato gettato: la loro estetica si basa su un collage di capi trovati per strada, selezionati e indossati con fierezza. Lontane dalle dinamiche commerciali, è stato il commercio a trovarle, come spesso è avvenuto: lo stilista Duran Lantink, infatti, ha modellato il proprio scheletro creativo sullo stile delle Sistaaz. In collaborazione con Duran e il fotografo olandese Jan Hoek, Cleopatra e altre sei ambasciatrici dello stile delle «cose perdute» hanno creato la serie di fotografie Sistaaz of the Castle e una collezione di moda. Le modelle hanno posato fuori dal castello di Cape Town, ai margini della città, immaginando di poter essere e impersonare chiunque (a questo proposito, vengono in mente le ballroom newyorkesi ritratte anche dalla serie Pose): da Coco Chanel a Celine Dion. «Abbiamo disegnato i nostri vestiti preferiti e poi abbiamo scelto sette ambasciatrici per il servizio fotografico», dice Netta Marcus, fondatrice di Sistaazhood. Le foto sono state parte del magazine omonimo e l’intero ricavato è stato devoluto al loro movimento.

Per quanto il loro modo di rielaborare capi usurati sia approdato alla Fashion Week di Amsterdam nel 2020 e al suo show d’apertura, Sistaaz of the Castle rimane la storia di Cleopatra che posa con abiti a rete, setosi e delle Air Max rivisitate, di Coco che impersona con i propri abiti la fiamma della Statua della Libertà, di chi ha compreso che qualcosa è inutile, senza funzione, solo quando smettiamo di dargli valore, quando ce ne dimentichiamo.  

In una poetica del superfluo e necessario, le Sistaazhood, Lantink, Hoek hanno voltato le spalle a ciò che è conveniente vedere, fare o essere, per abbracciare la meraviglia della distruzione, intesa come libertà, scoperta, nostalgia.

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