Avevo una bellissima giacca panna gessata della collezione Sex di Vivienne Westwood dei primi anni Novanta. Messa due-volte-due (non è esattamente il capo con cui vai a fare la spesa), per poi essere conservata sottovuoto nell’armadio della cantina. Finché un giorno di un mese fa, preso atto che mai e poi mai sarei stata così nuovamente audace (e trendy), ho deciso di venderla. Un amico mi ha consigliato la piattaforma di reseller Vestiaire Collective e, dopo averla fatta pulire e spazzolare, le foto di rito, l’ho postata alla modica cifra di 250 euro. Che fosse modica me ne sono accorta ahimé solo un paio d’ore dopo, visto che in 120 minuti esatti, l’avevo già venduta a un account di Parigi che l’ha mandata a ritirare il mattino seguente. I soldi, pochi, maledetti e subito, mi sono arrivati dopo una settimana.

Non avrei dovuto stupirmi. Il mercato del vintage, o meglio dei reseller, è un fenomeno dai numeri impressionanti e una delle tendenze del lusso in più rapida crescita. Certo, non avevo ancora letto l’intervista che Max Bittner, CEO di Vestiaire Collective, ha rilasciato a McKinsey. Per Bittner, è solo una questione di tempo prima che il resto del mondo faccia quello che molti giovani stanno già facendo: comprare e vendere solo abiti usati dai siti di reseller. Un’abitudine che rimpiazzerà l’acquisto della moda a basso prezzo, ma che anche per il segmento lusso significherà collezionabilità e status. Il dato forse più interessante però è quel trilione di dollari in beni di lusso attualmente negli armadi di tutto pianeta, metà dei quali mai indossati. Un vero capitale pronto a essere mobilitato. 

Per averne un’idea, basta vedere le previsioni di Statista sul valore di mercato della rivendita di abbigliamento di seconda mano dal 2012 al 2024: se nel 2019, era stato di 28 miliardi di dollari, fra cinque anni aumenterà di un terzo, mentre già adesso, il mercato dell’usato di lusso sta crescendo quattro volte più velocemente del mercato primario (dati 2020 Resale Report). Anche le ricerche online che includono parole come vintage e seconda mano sono aumentate dell’11% in questi mesi. Si cercano pezzi culto griffati Chanel, Hermès, Céline, Burberry (più 64% nell’ultimo anno), ma anche prodotti specifici come giacche, borse, abiti da sera.

Ma perché abbiamo così tanta voglia di metterci addosso capi datati e indossati da qualcun altro? Sempre Max Bittner suggeriva, come molti altri, che l’acquisto di un capo o accessorio vintage, che in vero riguarderebbe solo gli oggetti con più di 20 anni (la mia giacca Vivienne Westwood ci stava tutta!), è il balsamo perfetto per questi tempi affetti da incertezza radicale, e che quindi richiedono, per lenire la perdita di sé, oggetti in grado di rassicurare su identità, storia, legami. Ho già accennato al lusso longevo: ecco, pare che persino la longevità di una borsa, in questi tempi in cui nemmeno la permanenza su questa terra è così scontata, sia una carezza di conforto al nostro ego aspirante eterno giovane.

Il vintage, insomma, ci distingue (solo il ricordo, se ci pensiamo, è individuale), ci illude di far la cosa giusta togliendoci dalla massa dei frenetici consumatori (la parolina magica sostenibilità la ritrovate condita in tutte le salse), e, last but not least, ci dà una storia. Detto questo, ricordo sempre quello che disse a un convegno sulla sharing economy Adam Arvidsson mentre tutti beatificavano la gioia di condivisione delle proprie case: ovvero solo una crisi economica così diffusa porta tanta gente a mettere a disposizione, a condividere, i propri beni…. Con buona pace di ogni storytelling possibile.

Ma torniamo agli armadi. Negli anni Settanta, fuggire alle logiche imperialistiche delle vendite istituzionali rifugiandosi nel negozio di seconda mano, aveva un ché di ribellione. Oggi bisognerebbe ammettere che, persino questi circuiti paralleli, sono lì lì per essere inglobati dagli stessi marchi che, annusato il pericolo, ambiscono a controllare l’intero ciclo di vita dei loro prodotti, ben oltre il primo atto di acquisto e vendita. Per quanto si possa sospettare, non è una cattiva notizia. Anche l’economia circolare, perché è di questo che stiamo parlando, va progettata e curata. Tanto più se, come dice un rapporto McKinsey, questa sana abitudine potrebbe ridurre le emissioni dell’industria della moda di 13 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2030. Per i prodotti di lusso in particolar modo, che dovrebbero durare di più nel tempo e che hanno spesso piccole collezioni a edizione limitata, il fenomeno reseller è un argine al consumismo sfrenato. Una sostenibilità praticata e non declamata.

Dopo Burberry, Stella McCartney e Jonathan Cohen, da ottobre Gucci è entrato in partnership con il mercato della rivendite di lusso The RealReal. Come Vestiaire Collective, si tratta di piattaforme che contano decine di milioni di utenti in tutto il mondo, e che raccolgono il capitale in abiti fermo negli armadi del pianeta. Ma anche marchi più abbordabili come Levis e COS si stanno preoccupando del ciclo di vita dei loro prodotti facilitando la vendita dei loro capi usati: io sono una specie di adepta e quindi ne ho approfittato. 

E che questa non sarà una moda passeggera, ma una nuova abitudine d’acquisto, che solo in alcuni casi coincide con un minor esborso di denaro (nei reseller in molti casi, come per le sneaker, i prezzi possono anche quadruplicare), e che è destinata a entrare nella normalità (o nuova normalità come qualcuno ama chiamarla) ce lo dice anche la nascita di Display Copy, un fashion magazine, primo numero fine ottobre 2020, in cui, come è scritto non si vedrà mai un abito nuovo, ma solo abiti di seconda mano perché la missione è quella di promuovere il riuso e il riciclo degli abiti e naturalmente uno stile personale. Se non è una dichiarazione di guerra, è senz’altro un invito pressante a ripensare le collezioni di moda, anche se in molti sono convinti che il sistema non tarderà a fagocitare tutto. Fino alla fine.

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