Ha ragione Walter Siti quando dice che oggi le persone sarebbero interessate a un podcast in cui qualcuno intervista Emma Bovary molto più che a un romanzo in cui un uomo come Flaubert ne racconta la vita. Chissà che ne penserebbe lo scrittore francese Serge Doubrovsky della serie The Ferragnez, lui, che nel 1977 coniò il termine autofiction, riferendosi al suo romanzo Fils, per indicare il genere letterario in cui l’autore è il protagonista della finzione narrata.

E chissà se quelli che ormai mi sembrano miei amici, Chiara e Fede (che all’episodio 3 mi hanno perfino commossa: non uccidetemi), si sono studiati gli stilemi del nouveau roman, perchè sembra davvero che la sceneggiatura si rifaccia proprio all’école du regard (scuola dello sguardo) e a quel rifiuto della costruzione del personaggio per focalizzarsi sulla realtà nuda e cruda, che esulasse da una soggettività umana e che diventasse invece il suo racconto oggettuale, quasi il prodotto meccanico di uno scatto fotografico.

Spero di avervi strappato un sorriso perchè no, non credo che la produzione (Banijay Italia per Amazon Studios) abbia letto Marguerite Duras & Co (più probabile uno studio approfondito del target social dei Ferragnez), eppure, dicevo, la serie ricorda molto i testi prodotti da quella che tra gli anni ’50 e ’60, in Francia, era la nuova tendenza che, per denunciare l’ipertecnologizzazione (l’industrializzazione) della società, nel racconto riduceva la presenza umana alla funzione dell’occhio, a uno sguardo passivo che cerca se stesso attraverso lo specchio della fotografia o della macchina da presa.

Di fatto, buffa coincidenza, la serie comincia con le sedute di coppia dallo psicologo, proprio come l’autofiction era nata da un’esplicita ispirazione psicoanalitica, come indagine sull’inconscio. Sicuramente, a voler giocare a fare i critici intellettuali di un prodotto quantomeno mai visto fino ad oggi, il tema interessante è il rapporto problematico tra verità e menzogna, in una mise en abyme all’infinito.

Se avevo letto qualche libro ombelico-centrico, come l’autofiction di Emmanuel Carrère o di Karl Ove Knausgård (che ha scritto la sua autobiografia in sei volumi, con oltre 3000 pagine su tutti i più minuziosi fatti suoi, di amici, parenti e vicini), sinceramente non avevo mai visto una serie tv di questo tipo: nonostante la definizione di docuserie, in realtà The Ferragnez non ha niente ha a che vedere nè con un documentario nè, tantomeno, con un reality, ma è, appunto, un’autofiction in cui l’attore interpreta se stesso, è protagonista della sua finzione con tanto di nome, cognome e indirizzo, e si aggira nel montato mettendo in scena tutti i suoi affari (anche quando gli scappa la cacca, giuro!) fingendo però non ci sia mise en scène (tanto per capirci: Sorrentino, nella sua ultima opera autobiografica, cambia il nome al protagonista – ma lui, dai, è un vecchio boomer).

In una società – quella capitalista – dominata dai simulacri delle immagini e della tecnologia, in cui i reality diventano la forma più popolare di intrattenimento e i social network sostituiscono i giornali, l’autofiction seriale non può che essere un goal, per lo meno dal punto di vista del successo commerciale, se non altro perchè moltiplica e codifica un fenomeno già in essere: il following su Instagram. Ecco che c’è del genio, secondo me: trasformare i follower in spettatori ufficiali. Ma per farlo, come diceva la scrittrice Flannery O’Connor, Ci vuole una storia con dimensioni mitiche, una storia che appartenga a tutti”.

E allora, diaciamocelo, che ci sono riusciti a fare ciò a cui aspirava D’Annunzio, a “Fare della propria vita un’opera d’arte”. Lo so, suona come uno sberleffo e forse un po’ lo è, ma l’importante è contestualizzare: siamo in piena decadenza.

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