Se camminando per strada incroci uno che mangia, gli guardi il cibo che ha tra le mani o nel piatto (e lui se ne accorge e si curva leggermente in avanti per proteggerlo).
Ad ogni età valuti senza sosta le potenzialità sessuali, sinergiche o competitive, di chiunque rilasci feromoni intorno a te. Se dall’altro lato della strada vedi qualcuno che sbadiglia, sbadigli anche tu. Tutto questo perché sei un animale. Spesso sbadigli anche vedendo sbadigliare un cane o un gatto, tanto animale sei, o anche un ippopotamo in un documentario. Quando succede ti turbi un po’. Ti rallegri di essere incapace di percepire i feromoni di altre specie. Pensi anche sia un bene che il cibo per cani sembri sempre così disgustoso e che puzzi, così da non indurci in tentazione. Perché lo sai, che non sei del tutto civilizzato. Gli animali non umani abitano l’intero ecosistema dei tuoi comportamenti come colonie di ragni. Ti rifugi sui social.

Ti piacciono cibo e sesso. E ti piace dormire. Cose da bestie. Ti dovresti sempre alzare da tavola con un pizzico d’appetito ancora. Dovresti essere sempre un po’ represso sessualmente, almeno quanto basti a farti sembrare pazzo. E non devi poltrire. Dormire è da mollaccioni o da esauriti. È improduttivo e antipatriottico. Dormirai da morto. Ora sei vivo, e sei speciale: fatti vedere. Vai a fare la tua parte. Vai con loro. Fuori c’è un mondo che ti passerà accanto, altrimenti. Un milione di miglia di divertimento. Opportunità da cogliere grosse come meloni. I contratti, che li hai firmati. Alzati, morto di sonno. Fatti un caffè, quattrocento addominali e comincia ad organizzarti per queste microdosi, piuttosto, se sei una persona seria.

Ma del sonno io ho una venerazione inscalfibile. La sua origine mitologica è un patto che strinsi a diciott’anni con i due amici dell’età dell’oro. Il patto prevedeva che, a prescindere dall’attività in cui fossimo impegnati insieme, ciascuno di noi potesse semplicemente addormentarsi in qualsiasi momento, a piacimento, senza vergogna e senza che gli altri se ne avessero a male in nessuna circostanza. Il giorno in cui siglammo il patto era palpabile la nostra certezza di aver centrato al cuore una qualche utopia sacra, zoroastrica, e di aver trovato il modo di realizzarla con eleganza operaia, pragmatismo nobiliare e sottigliezza di cancelleria. Dormivamo senza regole. Vivemmo anni di libertà, come a credito – vivemmo come cani sapienti, gatti onniscienti, ippopotami potenti. Tra noi dormire era una attività, non la cessazione delle attività, e a quella attività avevamo conferito dignità massima e incontrovertibile. Dormire era prioritario. Pura intuizione. Genio assoluto senza freni, dico adesso.   

Quando però le nebbie si diradarono, alcuni cuori si spezzarono, e iniziarono le internships, ci dividemmo e il sonno cambiò. Diventammo dei giovani professionisti e i giovani professionisti dormono per recuperare, per rimettersi in sesto per il nuovo giorno. In questo scenario, il sonno non è una attività ma solo un ristoro in vista dell’attività, che è il lavoro o il divertimento. Tutti sono pieni di sogni e molti sognano per sgombrarsi l’anima. Sostanzialmente è come in caserma. La caserma era senza dubbio intitolata a Tony Blair e Nelson Mandela. Tutto quel lavoro. Il caffè. L’alcool. I network. I workshops. Le gite. I contratti. Alcuni di noi non ressero.

Io, per esempio, non ho retto. Come giovane professionista sono rimasto apparentemente inappuntabile, ma ho preso a dormire diversamente. La mia rivolta, oggi così squisitamente evoluta, iniziò di notte e in modo involontario e costoso. La tattica configurata dal me soggiacente, quello che opera negli anni eliminando e permutando i fattori come un’equazione, era semplice in modo deviato, sottilmente brutale.

Si cambiavano gli orari (cioè si riorganizzava la navigazione del tempo) e si eliminavano sia il ristoro del sonno che i sogni. Operazione fattibile mediante un dispositivo autogenerato ed autoimmune chiamato insonnia anticipatoria. Il dispositivo impedisce al cervello di uscire dai perimetri dell’attività di veglia, disabilitando i soppressori dell’attività cognitiva. In tal modo il sonno e i sogni non arrivano mai. Resta il riposo fisico, più simile a uno svenimento, che dura un massimo di quattro ore dopo le quali ci si sveglia nel mezzo di pensieri già ampiamente instradati e irresistibili. Caffè. La durata di una giornata si allunga così a venti ore di produttività potenziale, delle quali almeno quattro da passare in solitudine assoluta.

Inizialmente trasformai tutto questo in una opportunità di lavoro, arrivando al punto di credere di avere un qualche vantaggio competitivo sul resto del mondo tra le tre di notte e le sette del mattino. Poi aggiunsi anche del jogging all’alba. Non avevo alcun senso di padronanza di me stesso, ma mi sentivo padrone del mio tempo. Le due cose erano totalmente separate. Poiché non sognavo, il mio inconscio immagazzinava ogni cosa senza processarla, riponendo tutto su alti scaffali in scatoline sigillate e categorizzate esclusivamente in base alle mie prime impressioni. Questo negli anni portò a scompensi neurologici di vario tipo, che richiamarono infine l’intervento di dottori per via chimica.

Fui curato e per sei mesi dormii un’ora in più ogni notte. Poi ricominciai a svegliarmi alle tre o alle quattro, ma ora non lo subivo più, e men che meno mi mettevo a lavorare. Anzi: come un contabile, calcolavo con soddisfazione il tempo di sonno non ancora goduto così da poterlo poi riallocare a momenti diversi della giornata (calcolavo sulle otto ore imponibili totali, consigliate dai più), e fatto ciò restavo a fissare il soffitto nella totale inconcludenza. L’equazione si stava auto-risolvendo. Ero di nuovo a credito.

Oggi dormo quattro ore a notte, e poi riscuoto il restante dormendo quattro ore al giorno ripartite in intervalli casuali e capricciosi. Vaglio ogni luogo in cui mi trovo sulla base di quanto facilmente mi ci potrei addormentare, e se tutto torna mi ci addormento immediatamente. Dormo con ostinazione, pianificazione, incuranza e abbandono. Dormo come le bestie. Ho scarso controllo della mia agenda ma io e il mio tempo siamo di nuovo una cosa sola. Non competo più con nessuno.

Per approfondire:
La bussola del piacere, di David J. Linden


“Some thoughts on the origins of our current predicament. Manners, deference, and private property: or, elements for a general theory of hierarchy” di David Graber  

Non lavorare, ecco perché dobbiamo fermarci, di Josh Cohen

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