Marco Ceresa è da 25 anni in Randstad. Guida la filiale italiana del gigante olandese leader mondiale nei servizi per le risorse umane, che qui opera con 300 filiali e 2800 dipendenti. La sua squadra ha collocato nelle aziende un milione e mezzo di persone. Ma adesso guarda al futuro con una certa preoccupazione.
“Dal punto di vista generale – dice – è allarmante la situazione demografica. Quando la mia generazione andrà in pensione, ci saranno solo la metà delle persone pronte a sostituirla. Noi dobbiamo far lavorare di più le donne, ma soprattutto far venire persone da fuori. Altrimenti non avremo più medici, non avremo infermieri, non avremo magazzinieri, non avremo operai, non avremo informatici”.

Ceresa, un’analisi cruda, anche drammatica
“Sono vent’anni che avverto la presenza di questo problema. La crisi demografica ci obbliga a far venire persone da fuori. E la diversità, anche quella di origine, diventa pertanto un dovere. O facciamo così o il Paese si sgretola.”

E in più tanti giovani emigrano in cerca di opportunità di lavoro migliori. Perchè qui non le trovano?
“Sta cambiando molto il rapporto tra datore di lavoro e coloro che offrono appunto il loro lavoro. Ci sono fasi della vita in cui magari stringi i denti perché hai bisogno di qualcuno che ti faccia lavorare tanto, e che magari è disposto anche a pagarti tanto. Ci sono delle fasi in cui invece dici no, aspetta un attimino, sono disposto magari a rinunciare a qualche cosa pur di poter vivere un pochettino meglio”

Mi sembra che questa seconda fase stia diventando prevalente. O no?
“Ritorno al problema demografico. Prima eravamo in tanti a metterci nel mondo del lavoro. Oggi invece, soprattutto i giovani -ma non solo i giovani- ti dicono comunque che loro due giorni a settimana vogliono lavorare da casa. E non è una richiesta del singolo ma di sempre più persone. Che si accorgono che non sono più disposte a certi sacrifici per degli stipendi bassi, per cui cercano quella soluzione che gli permetta di vivere bene ma di non offrirsi completamente al lavoro come si sono offerte le generazioni precedenti. Poi chiedono cose nuove rispetto a prima”.

Quali?
“Avere delle relazioni genuine, sane, belle e non tossiche con i loro colleghi. Oggi se uno non trova un ambiente, diciamocosì, piacevole, perché l’azienda non riesce a crearlo, e l’azienda stessa controbilancia la sua mancanza su quel fronte pensando di cavarsela riempiendoti di soldi, il dipendente ti saluta e se ne va. Il clima aziendale è importante. Le imprese devono stare attente, debbono ottenere una buona produttività, certamente, ma trattenere al proprio interno i lavoratori, sennò uffici e fabbriche si svuotano. Un fenomeno frequente, tanto che notiamo come la vita lavorativa tenda ad allungarsi, perché le imprese se ne accorgono e cercano di cautelarsi assicurandosi per qualche anno ancora, magari a scartamento ridotto, il lavoro delle persone già in età pensionabile, e suppliscono così a quelle competenze che cercano e non trovano”.

Tutto quello che ci sta raccontando rafforza la convinzione che le imprese debbano considerare di più il rapporto “social” con i propri dipendenti. Entro il 2030 dovranno metterlo nei bilanci.
“Esatto. E qui un ruolo importante lo giochiamo noi agenzie per il lavoro, che dialoghiamo con entrambe le parti, chi offre lavoro e chi lo cerca, e suggeriamo cosa fare. Soprattutto agli imprenditori spieghiamo come attrezzarsi per diventare o rimanere un datore di lavoro attraente. Le aziende in generale si stanno adeguando, ci sono quelle più veloci e quelle meno, c’è imprenditore e imprenditore, ma lo si sta facendo. E’ una necessità. Un leader che non cambia perde lavoratori, perché oggi chi è qualificato e cerca lavoro, rispetto al passato può scegliere. Se non sei un buon datore di lavoro non attiri nessuno, la gente che hai se ne va e tu perdi clienti: sei destinato ad uscire dal mercato. E’ successo nella logistica, dove qualcuno pensava di utilizzare lavoratori stranieri dettando le leggi: non è più così nella
maggior parte dei casi. Chi rimane ancorato alle vecchie maniere rischia: ci sono state aziende, di cui non posso fare i nomi, che sono sparite dal mercato perché non hanno capito che il vento stava cambiando”

Quanto sono importanti, per chi cerca lavoro, i valori etici e sociali di un’azienda?
“Molto. Però non bisogna abusarne. I valori non controbilanciano un’offerta economica che non è all’altezza. Perchè una persona che fa fatica ad arrivare a fine mese non ha molte scelte. Tempo fa discutevo con una mia cara amica sulla sua scelta di lasciare il vecchio lavoro per andare in un settore che aveva sempre giudicato poco etico. Mi ha detto molto semplicemente che avevo ragione, ma che alla fine del mese aveva le bollette da pagare. Non si può vivere di soli valori…”

Un altro grande tema riguarda la governance. Troppo poche le donne nei ruoli direttivi? Anche questo dovrà figurare nei bilanci…
“La diversità in azienda è importante. Ma attenzione: Un’azienda si può dire inclusiva quando riesce a portare al massimo del loro potenziale le persone indipendentemente dal loro genere, dalla loro età o da altri fattori. Altrimenti tutto si limita all’estetica di poter dire “ho due persone di colore al lavoro, quindi io curo la diversity”. Dobbiamo pensare ai bisogni ed alle esigenze, che non sono solo fringe benefits uguali per tutti. Giovani e anziani, donne, uomini o fluidi non sono identici tra loro. Essere inclusivi significa capire quali politiche applicare per fare arrivare chi lavora al massimo del suo potenziale. Questa è buona governance”

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