Scrutando l’orizzonte, ai bagnanti che come da tradizione ferragostana affollano le spiagge italiane, si profila una seconda ondata. Magari si trattasse di una semplice mareggiata! L’onda di cui stanno parlando tutti i media riguarda un’impennata dei contagi di covid 19 e la tanto paventata riapparizione di uno spettro di nome Lockdown! Un ennesimo periodo di distanziamento forzato sarebbe davvero deleterio e verrebbe spontaneo correre ai ripari come davanti a qualsiasi minaccia. Se come dice Zarathustra “il peggior nemico che tu possa incontrare, sarai tu stesso”, da cosa dovremmo realmente difenderci?

Se volessimo rivolgere la domanda ad un Saggio, in un ipotetico Olimpo dei Maestri di Resilienza troverei senz’altro anche Pietro Pinti, che ho avuto la fortuna di incontrare quand’era ancora in vita. Nessuno come Pietro è riuscito a trasmettermi l’idea che solidità e sensibilità possono coesistere: era laborioso, pragmatico e con un forte senso dell’umorismo condito di genuina saggezza, un testimone raro e carismatico di un terribile periodo storico.

Nella sua autobiografia – Il Libro di Pietro – egli descrive un’epoca che ha visto i soprusi del fascismo e le ingiustizie della mezzadria, un sistema che ha resistito fin dai tempi del feudalesimo e che costringeva i più a vivere in condizioni di estrema povertà. Ma allo stesso tempo da questo fantastico libro emerge un’atmosfera spensierata in quanto ci si divertiva attingendo alle proprie risorse: la musica, la poesia e la narrazione di aneddoti animavano le serate a veglia intorno al fuoco. Pietro stesso suonava la tromba, scriveva e recitava poesie anche in improvvisati duetti in ottava rima condite da un’ironia mordente.

I fiammiferi e il sale erano le uniche cose che il contadino doveva comprare, tutto il resto era autoprodotto con estrema tenacia: vino, pane, olio, carne, ceste, scale, panni, sapone, tavoli, sedie, porte e finestre… senza vetri. D’inverno si andava a dormire con temperature glaciali aiutandosi con il prete, un telaio in legno a forma di slitta dove alloggiava un piccolo braciere che scaldava il letto e permetteva al pane di lievitare. Da primavera fino all’autunno inoltrato ci si svegliava all’alba per lavorare la terra ancora con i buoi e l’aratro, sempre a rincorrere le insaziabili pretese del signor padrone.

Tali ingiustizie sociali così fortemente consolidate, susciterebbero ora stupore ed indignazione ma che dire del diffuso fenomeno del caporalato e dei braccianti tuttora sfruttati come schiavi e pagati una miseria? La cosiddetta rivoluzione verde che ha pure compromesso il nostro rapporto con la terra mantiene sostanzialmente il potere nelle mani di pochi. Qualcosa non quadra: com’è possibile giustificare un miliardo e mezzo di produttori agricoli mondiali stretti nella tenaglia venefica di alcuni gruppi multinazionali che dettano le regole di mercato? E’ il progresso baby, ma anche la dimostrazione che i rapporti di forza sono rimasti inalterati e come nel gioco dell’oca si ha la sensazione di aver fatto dei passi indietro. Quindi si stava meglio prima?

Sicuramente prima dell’Era pandemica parecchi avrebbero storto il naso di fronte ad un paragone col passato: vuoi mettere il benessere diffuso e le incommensurabili possibilità di scelta rispetto agli stenti vissuti dai nostri antenati? Poi è arrivato un cataclisma invisibile e per non scalfire il nostro ottimismo ci siamo prodigati a coniare il famoso Tutto andrà bene, un auspicio per un futuro migliore ma anche una presa d’atto della nostra vulnerabilità di fronte a possibili scenari apocalittici. Il lockdown rappresenta per tutti uno shock, è indubbio, ma va considerato l’aspetto positivo di una possibile apertura di nuovi orizzonti e nuove consapevolezze.

Innanzitutto la forza mentale di reagire ad una deriva di automatismi, tecnologici e psichici, che ci hanno reso la vita sempre meno controllabile. Quando la sopportazione è al culmine arriva una ventata di creatività che permette di realizzare l’impensabile e oltre. Con poche risorse a disposizione, un pizzico di sana autarchia e un ritrovato senso pratico possono concretizzarsi manufatti sensazionali ed opere strabilianti del piccolo genio indomito che c’è in noi. E più si condivide questa nostra forza creativa con il prossimo, più l’effetto diventa esponenziale: provare per credere!

Se aspettiamo i governi sarà troppo tardi. Se agiamo come individui sarà troppo poco. Ma se agiamo come comunità potrebbe essere sufficiente e potremmo essere in tempo”, si erano detti nel 2006 gli abitanti di Totnes, piccola città nel sud-ovest dell’Inghilterra, un’esperienza che ha dato il via al Transition Network. I suoi abitanti ad un certo punto hanno iniziato a porsi domande sull’incertezza del futuro dandosi delle risposte rigenerative tipo piantare alberi da frutto negli spazi pubblici, coltivare cibo alle stazioni ferroviarie e immaginare insieme futuri auspicabili. La bellezza della Transizione sta nel fatto che è sperimentale, e alle volte esperimenti come questo riescono. Nessuno ha una ricetta su come attuare l’utopia (che come tale va solo inseguita), ma il senso di possibilità viene accuratamente coltivato perché “per realizzare un mondo migliore è necessario partire dall’immaginarlo, dal raccontare storie su come potrebbe essere”.

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