Il nuovo disco di Vasco Brondi, questo Paesaggio dopo la battaglia che è il primo che pubblica a proprio nome e non sotto lo pseudonimo degli ultimi dieci anni, ovvero Le luci della centrale elettrica, è un lavoro adulto. Mettiamocelo in testa, accettiamolo. O, perlomeno, è il lavoro di un artista che nella sua vita privata lo è diventato, adulto. E che ora, in maniera più o meno esplicita, racconta: la crescita, il distacco, la sconfitta e la disillusione; ma anche la serenità, l’accettazione.

Per chi c’era, al debutto nel 2008, Brondi resta un fratello maggiore. Uno che, perlomeno all’inizio, con attitudine punk e canzoni da cantautore sporche, grezze e per l’epoca attuali, fatte di immagini rubate alla quotidianità accartocciate su sé stesse (tu che «correvi su chilometri di scontrini ma non mi raggiungevi», per citare il classicone La lotta armata al bar), ha sentito ciò che sentivamo noi, però trovando – al contrario nostro – le parole adatte per raccontarlo. Generazionale, si direbbe; figlio e al tempo stesso cantore, di quei tempi lì. Poi l’onda è passata, a trent’anni ha pubblicato un disco da cantautore più classico senza rinunciare alla sincerità e alla poetica del caso (Costellazioni, del 2014) e poi si è disteso dentro la world music con Terra (2017).

La scrittura di Vasco Brondi

Nel frattempo la scrittura è diventata meno contorta; più serena, quasi mistica, spirituale almeno nei riferimenti. E Paesaggio dopo la battaglia, pur togliendo le ultime suggestioni etniche, si mette dentro un cantautorato elettroacustico classico, che non ha grossi punti di rottura col passato visto suo e degli altri, dato che qui gli strappi dagli standard della sua canzone tipica (il singolo apripista, Chitarra nera, è uno spoken incommerciabile e lontano da tutto, anche a livello di musica italiana) vengono puntualmente compensati da episodi più tradizionali. L’età dei grandi, quindi, passa anche e soprattutto dai testi: da quell’esplicito «siamo diventati adulti per tentativi» dell’opener 26000 giorni; dal ritornare sulla gioventù di Chitarra nera, dedicata a un amico morto in prigione, fra bilanci sordi, reminiscenze di un periodo «senza figli», rimpianti; dentro i ricordi intimi di Mezza nuda; e per la storia d’amore adolescenziale, sfumata ma che riscalda ancora, di Città aperta, ora che le strade si dividono e io «infrangendo le leggi fisiche ci sarò sempre per te», neanche fosse una La cura in versione di provincia, quella di Ferrara da cui viene Brondi.

Quella stessa Ferrara che, come tante altre città italiane, «è diventata fascista», perché già dal titolo questo disco racconta la crescita personale, certo, ma immersa nell’attualità, fra le «infermiere con il segno della mascherina» e l’Italia – sembra di sentire De Gregori quarant’anni dopo – di «carceri affollati, scavi interrotti» in cui sono «concesse le visite ai parenti». Anche qui, anche nella catastrofe, Vasco trova le parole giuste per raccontarsi e raccontare, e farlo con una generazione intanto cresciuta, persa fra colloqui infiniti e «vi faremo sapere», in cui «intanto puoi sorridere alle mille telecamere nuove alla stazione». Alla fine la sua scrittura è quella di dieci anni fa, a mescolare il distopico di marca urbana con l’intimismo, la spiritualità, la fuga nella natura, gli amori, gli affetti elementari di Ci abbracciamo, in cui appunto quando ci abbracciamo «non sappiamo più in che epoca siamo». Però adesso, rispetto agli esordi, è sereno, zen, spirituale. Malinconico e sognatore, con dentro la forza di resistere e direi anche adattarsi, entrambe proprie del momento che viviamo.

E c’è una frase, più di tutte, che mi ha colpito di quest’album; sta dentro (ancora) Chitarra nera, sintetizza bene il flusso bilanci, maturità, ricordi, gliela avrebbe riferita il suo amico scomparso, e fa così: «L’ultima volta come una colpa mi hai detto ‘alla fine sei l’unico che ha continuato a suonare‘». Per fortuna, e direi anche che non si è mai tradito. Così che anche ora che è cresciuto, e noi con lui, Vasco Brondi resta una guida in questi tempi. Abbiamo bisogno di dischi così.

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