Il 10 gennaio di cinque anni fa, David Bowie iniziava il suo vero viaggio verso le stelle, e oltre, lasciando dietro di sé una eredità monumentale, quella di un artista che ha portato il rock in una dimensione artistica concettuale, evoluta, progressiva, nel senso di spinta continua verso qualcosa di nuovo.

Per tutti gli anni ’70 David Bowie ha impersonato il ruolo di figura guida, in un decennio che ha prodotto forse più stili di qualunque altra: classic rock, progressive, elettronica, West Coast, punk, new wave, disco. Per molti di quella generazione è stata la migliore decade, dagli Stones a Lou Reed, da Joni & Jackson a Clash e Talking Heads. Non parliamo degli Eagles o Fleetwood Mac. Ma, in un certo senso, David Bowie è la sintesi di tutti loro: contemporaneamente di strada e raffinato, remixer di stili e citazioni, cantante e attore e pittore, capace di lavori di fantasia sfrenata ma contestualizzati nella realtà contemporanea. Come Orwell.

E soprattutto, popolare e avanguardista insieme. Questa, se ripenso al suo percorso, è la cosa che mi colpisce di più. Non è cosa da poco, anzi, piuttosto rara in qualsiasi ambito. La grande popolarità in genere si associa a un livello per tutti, un po’ meno nella musica che in tv, ma siamo lì. E, sempre in genere, è la nicchia che ama chi va oltre, chi rompe le regole ed entra in territori inesplorati.

David Bowie, invece, anche se il successo planetario gli arriverà qualche anno dopo (1983, con ‘Let’s Dance’), porta avanti entrambi i lati dell’artista risolto, come direbbero in psicanalisi. Capace di anticipare il futuro, grazie soprattutto alla sua affinità per l’elettronica, allora ancora analogica, alla sua istintiva capacità di lasciarsi dietro ogni creazione per trovarne un’altra. “Se funziona, gettalo via!”, mi disse in un’intervista del 1978, che ha lasciato tracce nella mia vita professionale. 

Dall’altra, però, quale figura più pop(olare) di lui? In cima alle classifiche anno dopo anno, giusto una pausa quando il progetto si era fatto troppo elitario (vedi Low), riconoscimento sostituito comunque dalle lodi senza freni della critica. Dalle sue dichiarazioni trasgressive, più o meno costruite, ai suoi eccessi cocainomani hollywoodiani, dalla persona dell’alieno che cadde sula terra cinematografico alle copertine di gossip e tabloid, Grammies e tour memorabili, David Bowie in quegli anni era ovunque. Maestro di stile e di comunicazione, anche in quei campi era una continua sorpresa, uno che indicava cosa si poteva fare di nuovo. Persino portare le proprie canzoni nel mercato dei Bond. Non lo faceva però in qualche loft newyorkese o in ristretti circoli londinesi, ma davanti agli occhi del mondo. 

Un avanguardista in cime alle classifiche è uno di quei felici ossimori che danno senso alla musica (penso a Battiato, anche lui un’anomalia, un mistico in cima alle classifiche). Solo delle combinazioni eccezionali creano innovazione. Ma se allarghiamo la focale sulla storia, è evidente che tutti gli artisti che hanno spinto avanti la musica, le hanno dato spessore e lustro, hanno avuto questa precisa componente, arte alta e appeal universale: i Beatles sono i capostipiti, poi verranno i Floyd e David Bowie e i Roxy Music con Brian Eno, i Peter Gabriel e i Fripp, insomma l’intellighenzia inglese, affiancata da quella americana: i Velvet Underground e poi Reed, Laurie Anderson e i David Byrne.

C’è questa capacità nella musica di oggi? Pensateci sopra, come nella parodie del Gov. Zaia del grande Crozza. Magari ci torniamo sopra.

Condividi: