Caterina Filograno giurista mancata, pugliese D.O.C formatasi in qualità di attrice alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, oggi è una drammaturga e regista tra la più originali (e in ascesa) della sua generazione.

La prima volta che ci incontrammo fu in un bar di un teatro, e lei mi chiese: Sei, pure tu, meridionale?. Alla mia riposta affermativa lei disse: Adoro!, da allora iniziò un gioco, che dura da circa 10 anni, di parlarci come se fossimo due vecchie signore del sud che continuamente si prendono in giro.

Caterina spesso, alla gente, si presenta molto più rustica di com’è veramente e la sua arte affabulatoria è capace di provocare dicussioni su discussioni perchè sa di essere intelligente, bella e senza paure. Ha un modo molto originale di scrivere il suo mondo e metterlo in scena, sempre in bilico tra un mondo visionario di una pittrice sud americana e di una direttrice di un reparto psichiatrico dell’upper class newiorchese.

Se dovessi raccontare di te in terza persona, come ti racconteresti?
Caterina è il tipo di persona che sceglie la tazza in cui bere il caffèllatte, ogni mattina sarà una tazza diversa. Vorrebbe un gatto persiano, ma non ha il coraggio di comprarlo.
Caterina ama la pioggia anche d’estate, e detesta la mediocrità.

Come racconteresti ad un bambino/a la tua storia?
Quando avevo la tua età, dissi a mia madre: io voglio far ridere le persone. Perché quando vedo gli altri ridere sto bene. E la storia della mia vita è cercare di farle ridere sempre.

In qualità di regista, cosa farai di diverso che ancora non è stato fatto dai tuoi predecessori?
Offrire cupcake avvelenati al mio pubblico, portando la frivolezza e la mondanità a contatto con il male. Esplorare le apparenze. Mettendo in rapporto un’estetica iper pop, colorata, kitsch, elettrica, violentamente brillante e un contenuto nero, cinico, ironico e al contempo tagliente. Io vorrei esplorare sempre di più questa linea, questo rapporto tra forma e contenuto per andare in zone ancora ignote. Non credo si possa ambire a fare arte se non si cerca di trovare l’equilibrio tra questi due fattori, ma ogni artista ne trova uno unico.

Mi interessa dar vita a un mondo lontano dalla realtà. Voglio creare dissonanze, cortocircuiti, dissociazioni tra parole, corpi e involucri mescolando linguaggi provenienti da diversi mondi dell’arte. Per questo il light designer con cui ho iniziato a lavorare viene dal mondo della musica e della pubblicità, la set designer dal cinema e collaboro ormai stabilmente con lo stilista e amico Giuseppe Di Morabito, che viene dalla moda. Senza dimenticare il mio sound designer Gerets che ormai reputo braccio destro e cerco di coinvolgere sempre anche in progetti extra. Difatti mi aiuterà col lavoro suono per la sfilata di Di Morabito alla Milano Fashion week di Febbraio, dove dirigerò per la prima volta un umanoide, Ameca. E sto scrivendo in questi giorni la drammaturgia per lei e la modella con cui parlerà durante la sfilata.


Di cosa dovrebbero aver paura le persone che hanno a che fare con te?
Io ho una lista dei miei nemici, credo sia necessario averne una nella propria mente perché l’odio, il disprezzo verso taluni ci permettono di definire chi siamo noi. Non diversamente dall’amore. Non porto rancore però, non ci riesco dunque chi mi fa del male non deve aver paura della mia vendetta…ma solo del fatto che lo eliminerò dalla lista delle persone a cui tengo o con cui lavorerei. E lo inserirò nell’altra lista.

Spero di poter fare paura alle persone che non hanno a che fare con me in modo diretto ma sono nel mio stesso ambiente perchè mi vedono come temibile competitor, come artista da invidiare…ammetto che non mi dispiace che altri provino questo sentimento guardando i miei lavori.

Credo poi che una sorta di paura sia forse anche necessaria quando si lavora con un regista, paura intesa in senso ampio dunque come rispetto del suo ruolo e della sua ultima parola. Alle volte non riesco a controllare la mia aggressività, non riesco a mantenere sempre il sangue freddo, cerco di avere pazienza perché credo fortemente nella necessità di creare un ambiente di lavoro sano, gioioso. Però mi capita di spazientirmi, sono un po’ rabbiosa di natura, e dunque cerco di lavorare su questo lato anche con la mia terapeuta per evitarlo. Povera terapeuta.

Cosa significa, per te, mettersi nei panni dell’altro?
Io faccio fatica a mettermi nei panni degli altri, sono una persona giudicante e ho molta difficoltà a controllare la velocità e la superficialità con cui giudico il prossimo. Ed è forse il motivo per cui ho scelto, e sono rimasta nel teatro e nell’arte in generale. Perché sono un essere piuttosto inquieto che si annoia facilmente di qualsiasi cosa, mentre l’arte non mi annoia. La scrittura mi costringe a osservare, a mettermi nei panni dell’altro, scrivendo personaggi che non possono essere giudicati, altrimenti non ne risulterebbe nulla di vitale su un palco. Quindi osservarmi, come narratrice in primis, è un’operazione fondamentale per chi vuole scrivere. E’ la prima lezione che ho imparato da Lucia Calamaro. Diciamo che il mio mettermi nei panni dell’altro è necessario a fini creativi e inevitabilmente mi aiuta anche nella vita, e dunque mi racconto che così diventerò una persona migliore! Chissà, speriamo.

Cosa ti spaventa, di più, del mondo del Teatro?
Del Teatro mi spaventano molte, forse troppe cose. Mi spaventano le persone che lo fanno, mi spaventa il fatto che c’è una sinistra e una destra anche nel teatro, ma il modo in cui poi si comportano le persone di sinistra – che dovrebbero essere i cosiddetti “buoni” – mi sembra alle volte peggiore di quello delle persone di destra….più giudicante, snob. Paradossale, no? Quindi anche queste narrazioni che noi ci diamo le trovo pericolosissime. Conta quello che le persone fanno, i comportamenti e il rispetto di un’etica.

Mi spaventa il fatto che il mondo dei teatranti sia chiuso in se stesso spesso senza dialogare con altri linguaggi, mondi: ci si frequenta tra teatranti, ci si sposa tra teatranti, i teatranti vanno a vedere spettacoli di altri teatranti. E anche in altri ambiti dell’arte è così. Manca curiosità, troppo spesso, Questo secondo me è LA MORTE del teatro. Io ho bisogno di scappare dal teatro per poi ritornarci. E quando non lavoro cerco il più possibile di frequentare persone che il teatro non lo fanno, non lo capiscono, non lo conoscono, non lo sopportano, perché i miei spettacoli si rivolgono a loro, soprattutto a loro.

Mi spaventa infine il fatto che dopo che la tua carriera è arrivata a un certo livello, inizi a diventare più una questione di come ti muovi, che contatti hai e diventa sempre di più un mestiere politico e tutto questo infetta la creazione perché toglie gioia e quindi io ora sono esattamente in quella linea di confine: in cui sento che la burocrazia e la mia abilità nel muovermi, nel fare pubbliche relazioni, stan togliendo sempre più spazio alla mia creatività e alla mia gioia. Insomma, devo trovarmi un’assistente!

Cosa ti fa “perdere la testa” (in positivo e anche negativamente)? 
Mi fa perdere la testa la bellezza. Mi piacciono gli uomini belli e alle volte è un problema, perché la bellezza si unisce spesso alla vacuità, soprattutto nel mondo di oggi, forse è sempre stato così? Non lo so, me lo chiedo sempre e mi faccio continue domande sulla bellezza. Che è un pò la mia ossessione. La bellezza oggi è un po’ come quei cagnolini di Jeff Koons, lucidi, che brillano e poi sono pieni d’aria, difatti io un pò lo detesto Jeff Koons.

Fare Teatro è fare Politica?
Fare Teatro è fare politica. L’arte è politica perché deve disturbare le persone che si sentono al sicuro e confortare le persone che soffrono, che si sentono degli underdog. Tutto ciò che non provoca questo effetto non è arte ma intrattenimento. Intrattenimento che non io non disprezzo affatto anzi..per me guardare Masterchef o 4 Hotel è rigenerante. E Beautiful è una soap opera divina!

Che tipo di spettatrice sei, quando vai a Teatro?
Io provo gioia quando vedo il teatro bello. Sono troppo sicura di me per provare invidia, dunque riesco a detestare cordialmente nel privato un artista e comunque adorarne i lavori. Aborrisco il fenomeno della cancel culture. Nel guardare io cerco di rimanere una bambina, con una soglia di attenzione molto bassa (sono molto molto istintiva). Quando uno spettacolo non mi prende in qualche modo ci rinuncio da subito, dopo circa 5 max 10 minuti. E inizio a vagare col cervello pensando ad altro. E quando mi prende invece gli perdono anche gli sbagli, gli errori che tali per me non sono più…quindi in qualche modo cerco di non guardarlo con degli occhi da operatrice, scientifici, ma me lo godo come atto di evasione.

Poi è chiaro che se ho bisogno di un’opera per studiarla la andrò a riguardare, per esempio c’è una serie HBO molto bella Succession – che secondo me dovrebbe essere imposta in ogni accademia per imparare le scrittura e la recitazione – beh io Succession (sono quattro stagioni) l’ho già vista tutta due volte e la rivedrò una terza, perché solo nella seconda visione ho iniziato a guardarla da un punto di vista più di studio. Idem per Desperate Housewives.

Ritornando al teatro, cerco di godermelo quando lo guardo, quindi poi faccio fatica con i miei colleghi teatranti a parlare di uno spettacolo subito dopo che l’ho visto, soprattutto se mi è piaciuto in qualche modo, se mi ha preso, non so come dire, perché non voglio sentire persone che ne parlino male, che dicono questo sì, quello no. Rompono l’incantesimo. Al contempo poi ci sono casi in cui un’opera mi fa molto incazzare e anche lì come una bambina reagisco in modo molto violento arrabbiandomi. Ma è necessario farmi decantare almeno 24 ore.

Cosa ti diverte di più del racconto che fanno di te gli amici/che…oppure le persone che non conosci ma delle quali percepisci cosa pensano di te?
Le persone, i miei amici sia in mia presenza o senza di me, mi definiscono una pazza. Sono un po’ la matta del gruppo, “che fa la matta?”, “ma la matta che dice?”. “Come stai pazza?” “Sei un pò matta tu.”

Per me essere definita pazza dalle persone, anche i miei genitori tendono alle volte a definirmi così, beh è un onore. Anche quando qualche persona alle spalle me lo dice non intendendolo certo come un complimento… beh per me sappiate lo risulterà sempre. Perché nella parola pazza, folle, si riassume tutto quello con cui mi identifico. Mi ritengo lucidamente folle nel mio modo di fare teatro, ma anche nel mio stare al mondo. E’ chiaro che poi il mio bisogno di conformarmi e di omologarmi alla massa c’è, eccome se c’è! Quindi mi piace fare la matta con una collana di perle attorno al collo, non so come dire, le mie rassicurazioni le vado cercando. Però mi piace che io venga definita nel bene e nel male una pazza. Se smetteranno di definirmi così vorrà dire che starò sbagliando qualcosa.

Cosa abbiamo (fortunatamente) lasciato nel Teatro del passato?
Quello che mi verrebbe da dire è che abbiamo perso una sorta di visione piramidale del sistema per cui il regista è il capo e gli attori devono pendere dalle sue labbra. In linea di massima mi sembra che questo ce lo stiamo lasciando alle nostre spalle, però in linea di massima…perché noto situazioni di gente, anche della mia età, che ripropone questo tipo di sistema, quindi questo principio di dinamica di potere, non so se davvero si estinguerà mai. Quello che secondo me sta succedendo è che si sta ridimensionando. Se prima era considerato la normalità, oggi viene visto un po’ come l’eccezione e anche chi prova a farlo alla fine risulta un po’ cringe, un po’ boh, ai miei occhi uno sfigato, insicuro che non riesce a essere senza dimostrare di essere.


Cosa abbiamo (purtroppo) perso del Teatro del passato?
Abbiamo perso, e lo dico io per prima, la complessità. Anche io faccio molta fatica quando scrivo a stare nella complessità. Abbiamo perso, sia come spettatori che come creatori, l’attitudine alla complessità. Oggi se leggo Thomas Mann, riesco a leggere non più di 10 pagine di fila e poi ho bisogno di prendere il cellulare per staccare e poi riprenderlo. Quando lessi la mia prima opera di Dostoievski, avevo una durata maggiore di attenzione nei confronti della pagina. Come creatrice mi sento molto vittima della semplificazione. Mi sforzo da autrice di affondare di più nella descrizione, nelle parole, nel pensiero più complesso, ma è difficile. Credo di non riuscirci ancora.

È un po’ ho paura anche della retorica che oggi sta imperversando i palchi, i film. Questa morale puritana, che viene dall’America in qualche modo, questo perbenismo che sta invadendo la creazione e prima non c’era così mi spaventa terribilmente. Credevo ce lo fossimo per sempre lasciati alle spalle. Credo che oggi anche abbiamo perso la possibilità di avere una fetta di creatori, oggi per persone meno abbienti e più difficile creare. E questo è gravissimo. Oggi noi artisti siamo borghesi, io ho una casa di proprietà a Milano. E anche se non ho spese faccio comunque fatica a campare col mio lavoro. Stimo immensamente chi viene da situazioni meno facili e riesce a resistere sono i veri eroi per me. Prima forse c’erano più possibilità.

Chi è quella persona che ti emoziona molto sapere essere tra i tuoi spettatori?
Mio padre. La persona che per prima ha creduto in me come attrice. In maniera anche violenta mi disse: non ti ci vedo come giurista (perché io mi stavo laureando in giurisprudenza) non ti ci vedo come avvocato, la tua personalità è fatta per fare altro. Poi mi son laureata ma l’ho ascoltato comunque. Lui è un artista figurativo, ha un carattere non facile, che in qualche modo lo rende più artista di me, perché è davvero l’artista che potrebbe vivere nel faro sempre da solo, mentre io sono veramente l’opposto, sono più una business woman da un certo punto di vista. Però secondo me ci unisce qualcosa, e quindi è inevitabile che la persona con cui ho sempre bisogno di confrontarmi quando creo è lui e sono contenta che abbia visto dall’ultimo animale a Oleandra un’evoluzione.

Mio padre è sempre molto sincero, mi dice la verità, capisce in profondo il mio rapporto con le attrici, capisce con chi mi trovo meglio, con chi mi trovo peggio, dove sto andando, ci ha messo un po’ ad accettare il fatto che io non volessi essere solo un’attrice ma volessi scrivere, però ha capito che l’essere diventata una regista, una che mette in scena testi suoi o di altri, in realtà sta diventando la mia forza perché si accompagna a una visione del mondo che riesco a esprimere meglio così. Io sto cercando la mia voce e lui lo sa. Inoltre rimane una persona non intellettuale quando si approccia all’arte, pur avendo ovviamente una grande conoscenza. Lui rimane sempre una persona della strada in qualche modo nella visione del mio teatro, e della cultura in generale e questo è importante.

Dal tuo punto di vista qual è la fatica maggiore a far riconoscere la propria professionalità in un mondo ancora troppo maschile?
Qualcuno mi disse che la mia bellezza sarebbe stata un problema nel farmi prendere sul serio. Vero. Mi è capitato quest’episodio un annetto fa: ero davanti a un direttore che si proclama di sinistra, a favore delle donne, bla bla bla. Gli stavo parlando di un mio nuovo progetto che farò tra qualche anno con un artista portoghese su Ilona Staller e mi disse “che strano, tu vestita così, sai…così seria, così professionale e poi mi presenti questo dossier su Cicciolina.” Lo trovai piuttosto deprimente questo commento.

Son stata definita mondana nel mio fare teatro, e a un uomo non direbbero mai “sei mondano”. Mi è capitato di avere dialoghi lavorativi con uomini di potere che rimanevano prima affascinati dal mix bellezza e intelligenza, poi in un secondo momento quasi spaventati, e dunque poi volevano scappare da qualcosa che li tentava o che non gli si concedeva. Ma poi chi ci perde sono io che voglio solo essere prodotta…non certo loro che possono perdere tempo a incapricciarsi. Dico che è capitato non sempre, ma è capitato.

Io ho anche usato la mia bellezza perché so che in Italia funziona così: la bellezza, se sei uomo o donna ti può aiutare ad aprire dei dialoghi, soprattutto poi se si accompagna a un cervello. Il mio sogno però è poter prescindere da tutto questo, poter vivere parlando di contenuti, senza dover pensare prima a come vestirmi a seconda di chi ho di fronte, che strategie utilizzare, poi è chiaro che anche io entro nel gioco se ne accetto le regole. Ma devo, sennò non sopravvivo. Ne chiacchieravo con una persona che lavora alla Shaubhune e gli raccontavo un po’ come funziona il nostro ambiente in Italia e lui mi diceva che in Germania semplicemente non funziona così, che da noi il berlusconismo fa parte del DNA. Berlusconi ha semplicemente rappresentato qualcosa che era già in noi prima di lui e ci sarà ancora. Sempre.

Sei diventata ciò che sognavi di diventare da bambina?
Da bambina sognavo di far ridere le persone e dunque sì, sono quello chesognavo. Credo che se morissi domani non avrei grandi rimpianti, se non di non aver saputo amare in modo duraturo un solo uomo ma aver sentito il bisogno di scoprire tanti, e forse troppi amori.

Qual è la maggior preoccupazione quando inizi un nuovo lavoro?
Di essere banale. Di non avere niente da dire. In questo momento sto lavorando al mio nuovo spettacolo che debutterà in autunno, storia di un matriarcato pugliese. Son piuttosto preoccupata dal copione perché non mi sento ancora convinta, ma è collegato a un romanzo che sto scrivendo da anni e quindi sto prima lavorando alla (terza) bozza del romanzo. E’ un lavoro che diversamente dagli altri è più autobiografico, doloroso e quindi ho avuto questa geniale idea di gettarmi senza rendermene conto nell’autofiction e giocarci pesantemente… giuro non lo farò mai più, prima e ultima volta. Però è più delicato, è più difficile: c’è più rischio di fallire. Come dicono i Baustelle, meglio il nucleare dell’autofiction fatta male.


Cosa pensi del “Pubblico”?  
Io penso che il pubblico sia più intelligente di come molti direttori di teatro, operatori e registi la pensano: il pubblico ha ancora voglia di complessità. Ma la complessità è un po’ carota e bastone, cioè va portata insieme alla leggerezza, gli spettacoli per arrivare al pubblico devono far passare i pensieri e le idee anche attraverso la leggerezza, leggerezza e profondità sempre, affondare e riemergere, affondare e riemergere, così uno riesce ad acchiapparlo il pubblico. Però il pubblico poi ha voglia di farsi domande, ha voglia di affrontare temi strani, specifici! Storie assurde. Io del mio lavoro di Oleandra, storia di una pianta che resta incastrata nel Metaverso, sinceramente i pensieri più intelligenti e stimolanti li ho ricevuti da alcune persone del pubblico. Vedevo più “preoccupati” certi operatori. Come pubblico alle volte ti viene anche voglia di studiare, interessarti di più a un tema dopo che l’hai visto a teatro. Insomma, la gente sa riconoscere il buon teatro. Diamoglielo, se lo meritano.

Chi è il tuo punto di riferimento, oggi (cinema teatro musica arte vita privata…)?
Allora, nel cinema i miei riferimenti sono Lanthimos, Ruben Ostlund, Woody Allen e Uber Alles Stanley Kubrick. Nel teatro Marthaler in primis, poi Castellucci, Rezza, Susan Kennedy, Carolina Bianchi. Nella musica Marracash, Philip Glass. Nell’arte figurativa, installativa, Bill Viola, Rubens, Caravaggio, Anish Kapoor. Nella letteratura Fleur Jaegghy, Natalia Ginzburg, Dostoevskji, Houellebeq. Nella vita privata il mio punto di riferimento costante è mia sorella.


Cos’è che ti fa scoraggiare?
Che si allontana sempre il momento in cui avrò il budget giusto per un progetto. Mi dico “nel prossimo spettacolo avrai più soldi”, ma mi chiedo quando arriverà il momento in cui avrò l’autorevolezza per avere i soldi veri, perché sto sempre lì a lottare per non sottopagare i miei collaboratori, le mie attrici, i miei attori e questo mi scoraggia tanto, mi fa stancare, le lotte sono un po’ eterne e questa ad oggi è la cosa che mi agita e scoraggia di più, perché poi io come regista son quella che deve portare avanti le lotte per gli altri, e se i conti non quadrano ce la si prende con me e questo mi affatica tanto.

Cosa si potrebbe fare, secondo te, per portare più giovani a Teatro?
Parlare della contemporaneità. Io penso che per fare teatro non si può vivere di solo teatro! Bisogna nutrirsi di altre forme d’arte, viaggiare tanto, leggere, parlare con la gente, frequentare chi non fa teatro. Il mio ultimo lavoro si rivolgeva soprattutto a una fascia d’età più o meno 15-30 e ho avuto anche questo tipo di pubblico. Io non escludo nessuna fascia, però c’è bisogno che i giovani e i giovanissimi lo frequentino. Ma è chiaro che se tu porti dei ragazzi a vedere, quando magari sono ancora al liceo, certe porcherie a cui io per prima sono stata sottoposta alla loro età, è ovvio che gli passa qualsiasi voglia. Ma di vivere anche! Dunque gli insegnanti, i direttori dei teatri dovrebbero stare più attenti, secondo me alle volte, nella scelta degli spettacoli da proporre o meglio propinare, perché se no rischiamo di perdere per sempre una fetta di pubblico.

L’ultima volta che ti sei commossa per un’opera d’arte (cinema teatro musica musei)?
Quando ho visto Pippo Del Bono con il suo nuovo lavoro al Piccolo, non mi ricordo nemmeno il nome, era un lavoro stranissimo, un mezzo reading,una roba completamente matta delle sue e credo che quello che mi abbia commosso di più era vederlo camminare nel palco un po’ affaticato, acciaccato dal fatto che sta sempre meno bene da un punto di vista fisico. Poi è partito un video di Bobò e mi ha distrutta. Io rispetto Pippo Del Bono sopra chiunque altro, infatti non l’ho neanche citato tra i miei riferimenti, perché io non oso neanche definirlo un mio riferimento, perché per me Pippo Del Bono è una sorta di Dio che si muove tra di noi. Lui è sopra l’arte, è aldilà, perché ha avuto il coraggio di vivere la vita che poi racconta nei suoi spettacoli, è un’unione di tutto, quindi non è solo un artista, è una sorta di profeta, è una figura che ha qualcosa di sacro per me, quindi io non riesco a pensare a lui nel teatro, però è chiaro che per me ogni volta vedere un suo spettacolo è una sorta di catarsi, infatti cerco di andarci da sola. Perché so che piango sempre quando vedo i suoi lavori. Ho proprio bisogno ogni tanto di vedere un suo nuovo lavoro, ne ho proprio bisogno, è un bisogno fisico.

In cosa credi?
Nell’etica. Nel fatto che esistono brave persone che si comportano bene e sono leali e corrette. E anche io voglio essere così, cerco di esserlo ogni giorno. Per me è più importante andare a dormire con la coscienza a posto che farmi produrre ad ogni costo. Che avere successo a ogni costo. Io non farei qualunque cosa per fare teatro, verrà sempre prima la lealtà, la gratitudine. Non voglio tradire chi ha creduto – veramente – in me e non voglio essere una mercenaria. So che questo mi farà perdere chance e va bene così. Non si può e non si deve avere tutto.

Condividi: