Violenza di genere e giustizia trasformativa
"Per una giustizia trasformativa" di Adrienne Maree Brown è un libro che pone una serie di domande aperte sulla violenza di genere.
"Per una giustizia trasformativa" di Adrienne Maree Brown è un libro che pone una serie di domande aperte sulla violenza di genere.
La lettura del libro di Adrienne Maree Brown Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture non può che suscitare sentimenti contrastanti, ed è un bene che sia così. Da poco tradotto in italiano dal gruppo di ricerca transfemminista queer Dalla Ridda per la collana Culture radicali di Meltemi, il testo contiene una postfazione di Malkia Devich Cyril e un lungo scritto del collettivo Smaschieramenti.
Quest’ultimo intesse un complesso dialogo con le riflessioni dell’autrice, scrittrice femminista e attivista per la liberazione nera nordamericana, facendo risuonare e stridere il posizionamento afrofuturista di Brown con l’esperienza della comunità queer bolognese in lotta, in un gioco di rimandi alle recenti riflessioni sul tema della giustizia trasformativa e in particolare al libro di Giusi Palomba La trama alternativa.
La giustizia trasformativa si è imposta nel dibattito grazie a questo e altri testi come la raccolta di traduzioni curata dal blog arbusti, E allora gli stupratori? Un approccio anarchico al crimine e alla giustizia. Anche se questo dibattito, in Italia, è agli albori, in altri paesi anni di sperimentazione ne hanno fatto un punto di particolare interesse, a partire da una domanda fondamentale: è possibile rispondere in maniera anticarceraria, non punitiva e autenticamente libertaria alla violenza di genere nei movimenti sociali, nelle comunità marginalizzate, tutelando fino in fondo le persone abusate?
Le pratiche a cui si riferisce l’autrice sono ormai diffuse in alcuni ambiti di lotta statunitensi, tanto da costituire una sorta di contronorma su cui, dunque, occorre riflettere con sguardo critico. Il call out, per esempio, è nato – ricorda Brown – come strumento di impoteramento per soggetti collocati in una relazione di potere sfavorevole, come arma in grado di restituire agency, possibilità di espressione e di affermazione laddove i meccanismi eteropatriarcali espongono la vittima/survivor a tutti i rischi ben noti a chi ha provato a denunciare un abuser, a partire dalla vittimizzazione secondaria.
E, tuttavia, esso rischia in alcuni casi di assumere ben altre connotazioni, trasformandosi in una sorta di chiamata identitaria all’espulsione di ciò che è scomodo dalla micro-comunità, di coazione a performare una solidarietà social con un semplice like, o persino in uno strumento di auto-assoluzione per il maschio cisgender di turno.
Brown non esprime un giudizio su strumenti come questo, ma trova il modo di attivare in chi legge una modalità (auto)critica in cui, accanto alla necessità di tutelare e accrescere la potenza delle persone abusate, sia sempre presente una domanda centrale: la pratica in questione ci fa crescere come comunità, migliora le nostre capacità di gestire la violenza, gli squilibri di potere e la sofferenza deə nostrə compagnə?
Lo fa a partire da una serie di distinguo necessari per mantenere la complessità, come quello, che innerva tutti i suoi interventi, fra conflitto e abuso. Perché ogni elemento o episodio problematico delle relazioni politiche richiede strumenti diversi, inevitabilmente.
Il punto da cui muovono le riflessioni del testo del Laboratorio Smaschieramenti, Ci siamo cancellate? Note su giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano è analogo:
A rigore, lo scopo di un processo di giustizia trasformativa – così come è presentato ad esempio da Giusi Palomba – non è esclusivamente quello della risoluzione dei vissuti individuali delle persone direttamente coinvolte dal “caso”, ma una trasformazione, un miglioramento della vita a livello di comunità.
Qui però il contesto è differente. Anzitutto, siamo in Italia, dove alcune pratiche hanno una tradizione meno lunga, tanto che l’uso ricorrente del termine protocolli (contro gli abusi) produce un suono un po’ stridente, non solo perché richiama una burocratizzazione delle relazioni, ma anche perché la discussione di procedure formalizzate e ampiamente sperimentate sembra in contrasto con una realtà in cui anche le forme basilari di denuncia delle violenze richiedono spesso una fatica deprimente e conducono a un esito insoddisfacente.
E tuttavia Smaschieramenti prende parola a partire da un posizionamento non scontato, cioè quello di una comunità – la comunità queer – che da una parte ha maggiormente approfondito il tema e ha affinato gli strumenti necessari a gestirlo al suo interno, e dall’altra trova stretti i criteri e i parametri tradizionali. Criteri che si sono affermati nei contesti etero, dove abbiamo più chiaramente a che fare con un rapporto fra un’oppressa e un oppressore, e dove il problema della giustizia trasformativa è quello, in qualche modo, di includere il nemico in un processo di crescita politica.
Ne escono una serie di riflessioni aperte e ricche di spunti preziosi, come quella sulla costruzione di spazi safe, spazi sicuri. Poiché lo spazio safe, per definizione, non esiste, occorre parlare di spazio safer, in una ricerca costante e consapevole di non poter eliminare per magia i dislivelli di potere, il rischio della violenza o dell’esclusione. Se il passaggio, cruciale, da safe a safer oggi è già al centro del dibattito, Smaschieramenti ripercorre la propria esperienza concreta nella costruzione di momenti di lotta e di convivialità queer a Bologna, e propone un passaggio ulteriore, quello dagli spazi safer agli spazi braver, spazi di coraggio:
C’è differenza fra essere sicure che nulla di non calcolato e di spiacevole possa accadere ed essere sicure che qualsiasi cosa avvenga sarà tenuta nel giusto conto e non l’affronteremo in solitudine.
Si tratta dunque di un dibattito aperto, in cui il libro si inserisce portando elementi che risultano inevitabilmente disturbanti, dove il contesto di provenienza di chi legge è dirimente. La mia esperienza nei movimenti antispecisti, per esempio, mi rende spaesato di fronte a riflessioni che danno quasi per scontato il concetto di comunità (benché Smaschieramenti sottolinei alcuni aspetti problematici di questa nozione). Perché nel nostro caso, questa comunità tale non è. Essa risulta più facilmente descrivibile come ambito o come ambiente, con i pregi e i difetti del caso.
Ciò significa che non è facile capire i motivi dell’incapacità dell’ambito antispecista di fare davvero i conti con la violenza maschile, di farla finita con la complicità con i tanti maschi abusanti cui il movimento continua a conferire voce, prestigio e potere. Si sarebbe tentatə di attribuire la colpa alla mancanza di un senso di vera e propria comunità; ma, d’altra parte, è chiaro che come antispecistə dovremmo fare molta autocritica sulla nostra impreparazione politica in tema di relazioni di genere, evitando di dare per scontata una supposta coscienza transfemminista che sorgerebbe magicamente proprio dall’identità antispecista (al contrario, a me pare evidente che i passi in avanti che stiamo facendo derivano principalmente dalla presa di parola di soggetti diversi dai maschi cis, da soggetti giovani e in dialogo costante con i movimenti transfemministi).
Il caso antispecista, su cui ci sarebbe molto altro da dire, è emblematico perché ci riconduce a uno degli aspetti perturbanti delle riflessioni sulla giustizia trasformativa, e cioè a una dolorosa domanda: come è possibile parlare di forme di giustizia non punitiva nei movimenti se non riusciamo neppure a tutelare le persone che in quei movimenti subiscono la violenza? Possiamo inoltrarci, come fa Smaschieramenti, nella decostruzione della figura della vittima e della soggettivazione vittimaria se le vittime concrete, nel nostro ambito, sono quelle che si vedono escluse per non infastidire i loro abuser?
Non si tratta di domande semplici. Ma sbaglieremmo, io credo, a pensare alla giustizia trasformativa come a un campo di riflessione che può aprirsi soltanto dopo che abbiamo raggiunto un grado minimo di efficienza nella costruzione di spazi safer, inclusivi e rigorosi nella denuncia dell’abuso. Benché esista il rischio – e nella mia esperienza si è palesato molte volte – che la giustizia trasformativa venga invocata proprio dagli abuser quasi come se fosse un diritto, una garanzia per la propria agibilità politica, questo rischio non dovrebbe farci rinunciare alla riflessione. Per far crescere la qualità politica e, di conseguenza, la potenza di una comunità. O, se non di una comunità, di un movimento seriamente intenzionato a incidere in modo radicale sulla realtà.