Williamsburg, il quartiere ebraico di NYC, filtrato dallo sguardo mio e del docufilm “One of Us”
Il documentario "One of Us" racconta la storia di chi, nel quartiere di Williamsburg, si è sottratto alla rigida comunità di ebrei chassidici.
Il documentario "One of Us" racconta la storia di chi, nel quartiere di Williamsburg, si è sottratto alla rigida comunità di ebrei chassidici.
Tra Manhattan e il sud di Brooklyn c’è un ponte in sospeso tra varie questioni sopra l’East River che divide le acque di New York. Al di là di questo ponte c’è Williamsburg, il quartiere ebraico, e come aveva fatto il mar rosso con gli Israeliti, così il mio basco rosso, da turista atea in mezzo agli ebrei ortodossi americani, ha fatto da spartiacque, improvvisamente fuori luogo.
Si apre così un altro mondo nella matriosca newyorkese madre di popoli ed etnie, confezionati uno dentro l’altro, come i prodotti degli ipermercati superlativi dove si trova tutto, da cupcake a clisteri, da persone di vari colori a caramelle di vari coloranti.
A Williamsburg si conserva sotto un acetato tessuto sociale l’ortodossia del compartimento ebreo chassidico. Secondo la descrizione (evidentemente miope) del trip advisor, quale unico profeta che il/la turista segue nelle tappe della guida verso terre promesse autentiche, si tratterebbe di un quartiere Hipster, da cui ci si aspetterebbe ogni colore sfalsato tra quadri, bretelle e papillon.
Tutt’altro. Lo stile alternativo, che un occidentale associa troppo precipitosamente a quello dell’eccentrico, non è il termine giusto per definire lo stile di una comunità così rigorosa, in un quartiere che condivide usi e un costume, camicia bianca e cappotto nero indistinguibile per tutti. Ci sfugge che si è alternativi sempre rispetto a qualcuno.
L’ebreo chassidico è trattato visibilmente come un’attrazione da Lonely Planet, come una specie protetta in uno zoo umano. In un certo senso è così, vive nella sua bolla, in memoria di vecchi banchieri ai margini di Wall Street di cui ha ereditato il carattere vintage.
Qualcuno però ha fatto scoppiare questa bolla. Il bellissimo documentario One of us, ovviamente disponibile sulla multinazionale americana Netflix, ci fa conoscere alcuni segreti degli ebrei chassidici che non si colgono per strada.
Sulle tracce della serie tv di Unortodox, One of Us è un documentario che racconta la storia vera di tre persone alternative di Brooklyn stavolta rispetto agli stessi di Williamsburg, che fanno i conti con l’ostracismo della loro comunità per essersi sottratti all’oppressione domestica, al super controllo della vita quotidiana, ritenuti traditori per aver voluto affacciarsi fuori alle offerte della grande mela e cogliere il frutto proibito.
Scopro così, ascoltando le loro storie, che lì, proprio vicino a dove avevo camminato, a New York, è vietato accedere a internet o indossare i calzini troppo simili al colore della pelle, che nei libri di scuola sono oscurati i volti delle femmine, che il rebbe, il rabbino che sovraintende sulla comunità e si assicura che vengano seguite le tradizioni pedinando chi non lo fa, ha una tale rilevanza da far sottrarre l’affidamento dei figli ad una donna che si è permessa di chiedere il divorzio, soprattutto se è una madre che legge ai bambini libri che trasmettono idee laiche o fa vedere dei film, oltre tantissime altre cose che non voglio spoilerare per invitarvi a vederlo.
Se lo si vede da un certo punto di vista, quello del quartiere ebraico è’ un chiaro meccanismo di sopravvivenza da una realtà esterna che minaccia la sua integrità, più ci si chiude più si preservano i valori identitari che devono essere necessariamente più rigidi per essere più resistenti alla via d’estinzione già esperita nell’esempio folle dell’Olocausto.
Tutto questo accadeva ad una manciata di fermate di metro che mi ero lasciata dietro come sale portafortuna, rovesciato dal cibo spazzatura di un cowboy in perizoma a Times square, dietro schermi di pubblicità in loop con donne in bikini che si alternano a quelle di altre tentazioni carnali, un newyorchese con più steroidi che globuli bianchi soffocato in una cravatta al Rockfeller Center o qualsiasi altro americano schizzato tra pioggia, soia o caffè che, con squilibrata maestria, succhia dei noodles mentre va a lavoro e cerca invano di non sbattere sulle macchine alle strisce pedonali, apprendista teorico della proprietà transitiva multi tasking dei suoi compatrioti col cellulare alla guida, ancora indenni, ma che stanno per investirlo.
Il gioco di riflessi poco pronti e molto luminosi continua sulle finestre specchiate degli skyscrapers che grattano i cieli da cui i businessman si grattano le parti intime dall’alto dei loro uffici e decidono come noi formichine frenetiche della strada dobbiamo spostare l’economia di frappuccini al caffè caramellato.
Il tempo da risparmiare nella pausa pranzo lo guadagna Starbucks nel biberon take away per adulti, al prezzo di 10 dollari scritto accanto alle calorie in base alla dimensione del bicchiere, perché il Paese del libero arbitrio ti ricorda che ti permette di scegliere, grazie alla sua onestà intellettuale tra costi e benefici non benèfici per la salute, così che, ogni volta che ordini, tu possa rinnovare il contratto con i sensi di colpa, in una libertà compromessa.
Tutto questo accade mentre una censura occulta serpeggia in alcune menti manipolate di Williamsburg. I valori cambiano, seppure la velocità è la stessa, la metro al massimo scricchiola un po’ di più e il tempo è un altro. Una fotografia senza flash, gonne lunghe di figure spettrali sotto una pioggerellina, un microclima in cui la densità dell’aria che si respira è semplicemente meno fritta ma non meno pesante.
Cappelli di vario genere sfilano sotto la cappa del cielo, dalla kippah, al cilindro, agli shtreimel di pelo coperti da un impermeabile fatto su misura, che sembra un tentativo buffo di proteggersi come quello di una busta messa sopra il sellino di una bici quando piove.
Sembra che tutti vadano ad un funerale, in palette con lo stile gotico, sui marciapiedi passano piú ruote di passeggini siamesi che piedi umani, bambini con 7 fratelli e sorelle per nucleo familiare vestiti uguali. Sull’altra sponda arcobaleno le famiglie allargate si espandono in coppie di padri e madri non biologici/che, chi per voler realizzare un amore omogenitoriale, chi perché ha il difetto di spermatozoi lenti e ha bisogno di una fecondazione assistita, chi perchè non accetta la sterilità che Dio gli ha dato, chi perché non ha un partner duraturo quanto il suo istinto materno, chi è figlio acquisito da secondi o terzi matrimoni a qualche isolato di distanza, e felicemente single non vuole affezionarsi per paura che eventuali figli abbiano un pregiudizio sul nuovo partner per colpa di definizioni sconvenienti e brutali come matrigna e patrigno, eredi dei cattivi delle vecchie favole.
A Williamsburg, invece, riconosci subito le parentele, i figli sono una fotocopia fronte retro dei genitori. I bambini sono concentrati nelle strade a giocare con quel che trovano a terra dietro le ringhiere delle case, hanno appena visto un topolino che sgattaiola e che i bambini di Manhattan scambiano per un Pokemon go.
Una valigetta gialla che sembra uscita da Hogwarts è serenamente incustodita per strada con i segreti del diavolo quanto dei loro boccoli perfetti, le peot.
Saltellano a molla mentre camminano, la pettinatura degli uomini è curatissima a confronto del mio shampoo da albergo asciugato al vento che mi fa passare inosservante per non essere guardata male, con capelli crespi che hanno la stessa consistenza delle parrucche che indossano le donne.
La sensazione surreale mi fa sentire impermeabile alla pioggia, impenetrabile ed estranea ad un incantesimo di cui non capisco la formula, ogni uomo che mi sfiora sussurra parole in yiddish. Canticchiano a bassa voce, come un sermone, una preghiera solenne mascherata da un fischiettìo che mi trasporta downtown.
Cerco indizi hipster più avanti, le scritte in ebraico non aiutano, entro in un negozio di carne e tutti si girano, avendo fiutato la mia estraneità, gli sguardi che mi mangiano viva mi fanno sentire più incellofanata delle fettine di manzo con cui mi sento di empatizzare. Non è una macelleria, non c’è macellaio, ma solo un ammasso di carne confezionata nel polistirolo impilato davanti ad una ressa di persone che smista, cerca e disordina come fossero in un mercatino vintage a scegliere il pezzo migliore.
Un tonfo di carne nauseante, carrelli sparsi in ordine casuale seguono un percorso ad ostacoli, odore di rosso fresco. Gli ebrei ortodossi non mangiano carne se non quella Kosher che significa pura, adatta e sottoposta ad una pratica di macellazione sottoposta a un rabbino specializzato che tutela la dignità dell’animale solo con un taglio della gola secco, il sangue non si mangia. Gli animali consentiti sono solo quelli con lo zoccolo fesso, ovvero diviso, spaccato, ecco perché si dice fesso per dire stupido. Anche se il nostro fesso deriva da fessa, che significa vulva, chissà…
Qualche riferimento ancora alla frattura dei generi, anche se alimentari, tutto questo nella patria del fast-food e degli hamburger sembra ancor più paradossale, il mondo della convivenza, l’America dei contrari, dei diritti e delle restrizioni, dello spreco e del risparmio, degli stripclub e del chassidismo.
Gli Stati Uniti contengono il 40% dell’intera popolazione ebraica mondiale, le donne ebree sono pochissime in strada, sembrano uscire solo per prendere i figli a scuola o per ritirare da un grossista l’ennesima camicia solo bianca.
E’ un film in bianco e nero con qualche censura sui colori, dove bisogna stare attenti ad accedere automaticamente al wifi di un parchetto dove dei ragazzi di colore giocano a basket.
1 Comment
Viaggiare dall’altro capo del mondo per ritrovare se stessi e confrontarsi con ciò che è diverso, fa riflettere come alle volte basti attraversare un ponte per uscire dalla comfort zone. Se il ponte non ce l’avete consiglio una semplice camminata controcorrente per sentirsi un salmone fuor d’acqua. Bel racconto Silvia, mai banale nella tua semplicità.