La realtà virtuale (VR) è una tecnologia che permette di avere esperienze coscienti di un mondo esteriore a sé ma generato da una simulazione informatica. Incorpora perlopiù stimolazioni e interazioni visive e uditive, ma versioni più sofisticate possono includere anche esperienze tattili, gustative e olfattive. È plausibile pensare che il perfezionarsi della tecnologia renderà, probabilmente nel giro di pochi anni (su VR investono Google, Facebook, Apple, Samsung, Amazon, Microsoft, Tesla, Siemens, la NASA, il governo cinese), una esperienza VR più o meno indistinguibile da una esperienza in presenza, come si dice oggi.

Il Covid19 ha messo in ghiaccio il turismo mondiale. In questa situazione, non solo specifiche aziende e istituzioni ma interi paesi come Germania ed Irlanda hanno puntato – almeno per il momento – sul turismo VR. Come spesso è il caso, una certa applicazione di una tecnologia stimola riflessioni su possibili sue altre applicazioni, in altri campi o per altri motivi.  Potrebbero o dovrebbero, ad esempio, darsi casi in cui ci si limiti al turismo VR per motivi non sanitari, come nel caso del Covid19, ma piuttosto ambientali? Casi, come le Isole Galapagos, in cui specie in via d’estinzione o interi ecosistemi sono messi a rischio dal turismo in presenza e le infrastrutture che esso richiede? Se, per rispetto della salute umana, si ripiega sul turismo VR, non si potrebbe o addirittura dovrebbe far lo stesso per rispetto dell’integrità di certi ecosistemi fragili, e per assicurare la sopravvivenza di specie a rischio?

Per evitare obiezioni filosoficamente banali assumiamo una tecnologia VR evoluta abbastanza da generare esperienze sensorialmente/neurologicamente indistinguibili da esperienze non-VR (siccome stiamo per entrare in modalità filosofica, meglio abbandonare la qualifica in presenza a favore di non-VR: ci sono sensi importanti in cui io sono presente anche in VR – ad esempio lo sono come coscienza e ricettore sensoriale, nonché come forza causale). E partiamo dal si potrebbe, ovvero dall’opzionale. Di buono ci sarebbe che il turismo VR allenterebbe la pressione su specie ed ecosistemi fragili come quelli delle Galapagos, permettendo allo stesso tempo di allargare le opportunità di fruizione del patrimonio naturale del pianeta a molte più persone di quante non possano permettersi i costi del turismo non-VR (una interfaccia VR costa oggi in media 300 euro e permette numerosi e differenti viaggi al giorno per molti giorni – un solo biglietto aereo Roma-Galapagos ne costa almeno 750, e gli aerei inquinano). Inoltre, l’esperienza VR di questi luoghi ed entità potrebbe essere un potente strumento di educazione ambientale.

Una prima obiezione potrebbe essere che il diffondersi della fruizione VR metterebbe a rischio posti di lavoro legati al turismo non-VR nei luoghi di destinazione. In merito, va notato che la ricostruzione VR di un luogo o entità si basa sui dati che il simulatore informatico ha a disposizione, e che più dati significano migliori ricostruzioni. Si potrebbe allora immaginare che gli abitanti delle Galapagos oggi occupati nel turismo non-VR trovino invece occupazione nel turismo VR, quali raccoglitori di dati sull’arcipelago e il suo patrimonio naturale – basterebbero degli smartphones in dotazione. Quale che sia il fornitore di servizi turistici VR, per avere quei dati dovrebbe pagarli. Diventerebbe a quel punto un esercizio puramente empirico il calcolare se un abitante medio delle Galapagos guadagni di più con il turismo non-VR o vendendo dati con quello VR. Considerando che molto del patrimonio naturale del pianeta si trova in paesi in via di sviluppo, e che il turismo non-VR in quei paesi è di solito orchestrato da gruppi stranieri che spesso godono dei bassi costi della manodopera locale e raramente lasciano i profitti sul territorio, tale esercizio empirico potrebbe anche rivelare una benefica e normativamente giustificabile potenzialità redistributiva del turismo VR.

Una seconda obiezione è che essere fisicamente alle Galapagos è diverso dall’esperirle in VR. Questo è innegabile, ma non decide quale delle due esperienze sia migliore (ciò che è diverso non è per questo né meglio né peggio di ciò da cui è diverso). Per valutare ciò bisogna almeno prima definire il diverso. Si intende dire che ciò che esperiremo sarà sensorialmente/neurologicamente diverso nei due casi, ed esperiremo di più e meglio in non-VR che in VR? Questo lo abbiamo già escluso per ipotesi: confidando nel più che probabile perfezionamento della tecnologia, stiamo considerando esperienze sensorialmente/neurologicamente indistinguibili.

Il che ci porta ad un secondo possibile senso (negativo) di diverso – cioè illusorio, non vero. Ma memento Cartesio: nessuno di noi sa per certo di non essere in VR anche quando pensa di essere in non-VR. È possibile (se non addirittura probabile) che tutti noi siamo, senza poterne avere contezza, personaggi di una simulazione VR concepita, realizzata ed esperita (o magari poi ignorata: forse la commedia umana è noiosa e hanno cambiato canale, come facciamo noi davanti alla televisione) da altri (demoni? Alieni? Dei? Intelligenze artificiali? Nostri doppelganger da qualche parte? Noi stessi in una altra dimensione? Noi stessi nel futuro?)

Inoltre, non è del tutto chiaro cosa si intenda dicendo che una esperienza VR delle Galapagos non sia vera: quella esperienza delle Galapagos è chiaramente vera, in VR. È una reale esperienza virtuale delle Galapagos. Io sono veramente in una versione virtuale delle Galapagos, e proprio io ho vere (effettivamente esperite, non illusorie, neurologicamente rilevabili) percezioni, pensieri ed emozioni che si riferiscono proprio alle Galapagos.

Scendendo di un gradino nella scala dell’astrazione, troviamo un altro senso di vero, ovvero autentico. Spesso, da turisti non-VR, ci lamentiamo del fatto che ciò che vediamo visitando le nostre destinazioni non è il loro cuore autentico ma solo una facciata user-friendly, apparecchiata, appunto, per i turisti. Torniamo alle Galapagos in VR: poiché la raccolta dati verrebbe affidata ai locali, che conoscono le Galapagos autentiche – quelle situate oltre i tracciati del turismo di massa – i fruitori VR delle Galapagos potrebbero paradossalmente averne una esperienza più vera di quella che avrebbero avuto andandoci fisicamente.

Passiamo ora al si dovrebbe, ovvero all’idea che esperire le Galapagos in VR diventi non una opzione in più, ma l’unica opzione disponibile se si vogliono esperire le Galapagos. Chiediamoci: accettiamo limitazioni per motivi antropocentrici (la salute umana, minacciata dal Covid19) ma non siamo pronti a fare lo stesso per motivi non-antropocentrici (l’integrità di ecosistemi e la sopravvivenza di altre specie) neanche in casi urgenti e pur avendo validi sostituti tecnologici a nostra disposizione? Siamo dunque tanto specisti – ovvero paladini della nostra specie, anche a scapito di tutte le altre, solo perché è la nostra? E non è questa postura discriminatoria strutturalmente equivalente ad essere razzisti o sessisti?

I non ambientalisti contesteranno l’obbligo del VR in nome della libertà, pur dovendo accettare che questa consumerà luoghi come le Galapagos in una tragedia dei beni comuni che sostanzialmente si riduce a chi può permettersi di andare e a chi arriva prima. Gli ambientalisti, d’altro canto, saranno salomonicamente divisi, e scopriremo chi è chi. I romantici-vitalisti contesteranno la mediazione della tecnologia e la perdita dell’esperienza fisica, e questo svelerà forse che ciò che davvero hanno a cuore non è il valore non-antropocentrico delle Galapagos, ma il valore antropocentrico ed egoistico dell’esperienza che loro vogliono avere delle Galapagos. Gli altri, i non-specisti che hanno a cuore il valore non-antropocentrico delle Galapagos, data la situazione indosseranno – magari a malincuore – gli occhiali VR.

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