Il 2020 verrà ricordato senz’altro come l’anno del covid. Eppure è avvenuto un sorpasso micidiale che dovrebbe farci parecchio riflettere: la massa dei materiali prodotti dagli esseri umani quest’anno ha superato la biomassa vivente, quella che all’inizio del XX secolo rappresentava il 97% della composizione del pianeta.

A dimostrare che la componente naturale del nostro pianeta è scesa sotto il 50% è una ricerca appena pubblicata sulla rivista Nature dal team coordinato da Ron Milo per conto dell’Istituto israeliano Weizmann per le Scienze. Il complicatissimo calcolo stima che la massa artificiale che grava in questo momento sulla Terra sia pari a 1.100 miliardi, contro un peso di biomassa organica appartenente al regno animale e vegetale pari a 1.000 miliardi circa di tonnellate.

Chi sta facendo il tifo per la natura deve purtroppo assistere ad una gara impari tra un ecosistema difeso da pochi e l’avanzata inesorabile di massa antropica che negli ultimi vent’anni è pressoché raddoppiata. Il regno vegetale viene sistematicamente eroso da un’agricoltura estensiva e da enormi allevamenti lager che deturpano il paesaggio, producono la maggior parte dei gas serra e inaridiscono i terreni. Il regno animale che da piccoli si studiava sui libri di scienze registra una moria di specie straziante. Ogni sorta di territorio tutelato o meno dalle istituzioni viene invaso da un’urbanizzazione fuori controllo. Dagli anni del boom economico stiamo assistendo ad un moltiplicarsi incontrollato di edifici mastodontici e strade che aumentano le loro corsie: l’avanzata di cemento e asfalto, la fetta più consistente della materia artificiale stimata, sembra inesorabile.

Le necessarie infrastrutture per velocizzare la distribuzione di tutte queste merci generano opere faraoniche, gallerie stratosferiche, tunnel sottomarini, ponti chilometrici. Per non parlare dei mari solcati da navi gigantesche, da crociera, da pesca, da trasporto, da guerra, sottomarini nucleari, arsenali e bunker militari. O dei cieli frastornati dal passaggio di razzi, missili, droni, satelliti e dal traffico incessante di aerei… Com’è frastornata la nostra quotidianità dalla presenza di macchinari complessi, automatismi ingestibili, aggeggi sofisticati, telefonini all’ultimo grido e altre diavolerie elettroniche.

Le nostre case lentamente sono diventate dei depositi di oggetti, attrezzi, utensili, apparecchiature, giochi, vestiti, che vengono rimpiazzati da altri più smart. I nostri bagni si sono riempiti di flaconi, tubetti e flaconcini così come si sono moltiplicati i siti, le pagine social e le chat dove la gente si sbarazza di cose inutili. Almeno così rivivono una seconda vita, non come capita ai tanti televisori, stampanti, computer, fax, forni a microonde, o a poltrone con qualche difetto, scarpe quasi nuove e altro ciarpame vario che viene accatastato in malo modo accanto ai cassonetti di molte città.

Case riscaldate grazie all’avanzata di gasdotti intercontinentali, oleodotti che spandono e ogni tanto esplodono, raffinerie, piattaforme petrolifere e minerarie che scavano e perforano senza sosta. E la finanza che fa? Investe su dodici mega-progetti fossili che sono finiti sotto la lente di ingrandimento di 18 Ong internazionali, tra cui l’italiana Re:Common. Lo studio appena uscito s’intitola: “Five years lost. How finance is blowing Paris carbon budget”. Se venissero realizzati causerebbero il rilascio in atmosfera di 175 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. In spregio agli accordi sul clima di Parigi di cinque anni fa, si calcola che il volume di CO2 generato da società come l’italiana Eni, la francese Total, l’anglo-olandese Shell e le altre major dell’oil&gas, sarebbe sufficiente a esaurire metà del budget di carbonio che ci rimane a disposizione per contenere l’innalzamento delle temperature di questo secolo entro un massimo di 1.5 ºC.

Per capire meglio il fenomeno agghiacciante prodotto dall’inesauribile bulimia umana bisogna vedere Koyaanisqatsi, pellicola iperbolica del 1982. Un lungometraggio ipnotico diretto da Godfrey Reggio, non facile da digerire ma drammaticamente attuale. Lo spettatore è catturato in un viaggio che inizia nella natura e finisce in un mondo artificiale e surreale sempre più frenetico. Il tutto reso ancora più angosciante da una colonna sonora minimalista e molto efficace di Philip Glass.

Chi ricorda ancora il Pacific Trash Vortex, o grande chiazza di immondizia che galleggia indisturbata nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, venuta alle luci della ribalta qualche anno fa? Ebbene, questo nuovo continente di plastica è ancora lì: si stima un’estensione tra i 700.000 km², equivalente alla penisola iberica e i 10 milioni di km², più della superficie degli Stati Uniti. E’ il simbolo di una forsennata rincorsa ai beni materiali che durano sempre meno, grazie all’obsolescenza programmata e agli impulsi consumistici inculcati dai media. E’ il risultato dell’incuria di una società che nel suo complesso, a parte alcuni poveri cristi che vanno nelle spiagge e nei boschi a raccogliere i rifiuti, è votata all’autocommiserazione. Se vogliamo continuare a questi ritmi, la massa generata dai sapiens sapiens dovrebbe superare i 3.000 miliardi di tonnellate entro il 2040, a tutto danno della biomassa vivente.

L’unica alternativa plausibile è quella intravista nel secolo scorso da Serge Latouche, che ha dato il via al movimento della decrescita felice, per uno stile di vita sobrio che punta sulla semplicità e sulla massima sinergia possibile che scaturisce dalla qualità delle relazioni. Pertanto a Natale, in questo Natale segnato dalle restrizioni, il miglior gesto che possiamo compiere per il bene del pianeta, della sua biomassa e di tutti noi, è quello di realizzare i doni con un creativo fai da te, riciclando o utilizzando materiali naturali.

Oppure semplicemente regalare affetto, calore, empatia, solidarietà, felicità e soprattutto buone idee per intravedere un futuro possibile. Intanto buon 2021.

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