Non venitemi a dire che la costruzione, in un romanzo, conta poco, perché vi vengo a cercare a casa, vi vengo.
Io sono di quelli che la pensano come Иосиф Александрович Бродский (Iosif Brodskij per gli amici) quando dice: “La qualità di un racconto non dipende dalla storia in sé ma dal montaggio”. E il montaggio di Patria è grandioso, grandioso è il passaggio di testimone della narrazione, capitolo per capitolo, con una tecnica che consente di diversificare i registri ed evitare l’iceberg della noia un attimo prima che si profili all’orizzonte. Perché tenere alto il tono per 626 pagine è impresa mica da poco. Più che dalla scrittura, Patria è sorretto dal montaggio.

Patria è un campo magnetico all’interno del quale gravitano due famiglie, un tempo amiche, oggi divise dal terrorismo basco. Non ho memoria di altri grandi romanzi che abbiano raccontato l’Eta. Ma Patria è un romanzo che racconta l’Eta? Proviamo nel libro a sostituire, all’Eta, l’Ira o l’Intifada – solo per citare altre forme di lotta armata che hanno al centro rivendicazioni di stampo nazionale. Proviamo a sostituire Euskal Herria con la Palestina o l’Irlanda del Nord. Cambierebbe molto? No, non credo. Patria non racconta il motivo per cui è nato il terrorismo basco, cosa lo ha generato o perché è morto, ad Aramburu il tema non è che interessi granché. Patria non ha l’obiettivo di raccontare la Storia, di scegliere vinti e vincitori, buoni e cattivi, ma il modo in cui le tragedie cambiano gli uomini. Ed è questo il secondo motivo di successo di Patria (più della scrittura, of course). Così, nella frase:

“chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti”

il fuoco non è sulla bomba, ma sul grande tema universale del perdono.
E allora capisci che la Storia serve solo a quello, a ragionare sull’esistenza.
Ah, i romanzi che sanno andare oltre l’oggetto del loro racconto! Ah, i romanzi!

Patria di Fernando Aramburu
(Guanda, 2017)

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