“La gente è superba soltanto quando ha qualcosa da perdere, e umile quando ha qualcosa da guadagnare”. Henry James

La vana gloria di un passo famoso dell’undicesimo canto del Purgatorio («Oh vana gloria de l’umane posse, / com’ poco verde in su la cima dura / se non è giunta da l’etati grosse!», vv. 91-93), argomento di un capitolo (De inani gloria) di una delle più note e importanti Quaestiones disputatae (De malo) di san Tommaso, è la stessa inanis gloria di altre opere morali e religiose di età  medievale; Gregorio Magno (Moralia, XXXI, xlv, 87) l’aveva fatta subentrare alla superbia, in cui altri autori l’hanno invece ricompresa, come prima dei sette peccati capitali (gli altri: invidia, ira, tristitia, avaritia, ventris ingluvies, luxuria).

«La gente è superba soltanto quando ha qualcosa da perdere, e umile quando ha qualcosa da guadagnare», mette in bocca Henry James, nel secondo dei suoi romanzi (L’Americano, The American nell’originale inglese), al visconte Valentin de Belleville. Il giovane nobile, che sta dialogando con l’americano protagonista (Christopher Newman), gli ha appena detto: «Lei non ha nulla a che vedere con la superbia, o con l’umiltà… la cosa fa parte della sua disinvoltura». È anche un confronto fra “tipi” nazionali, il disinvolto americano e il parigino galante, estroverso e narcisista («più compiaciuto di se stesso che dell’effetto da lui prodotto su coloro per i quali si esibiva»). 

E dopo aver parlato della paura, oggi siamo alla superbia che, come decoro o sussiego, è una delle tante parole dell’italiano che si riuscirebbe con difficoltà a sostituire con un sinonimo che calzi perfettamente a pennello. Lo stesso vale per quella particolare, pronunciata manifestazione di superbia che è la protervia.

Il termine protervia, che discende dall’omonima voce del latino tardo, indica quell’ostinata, sfacciata e audace superbia, quel misto di prepotenza e alterigia, sfrontatezza e insolenza, boria e arroganza che solo un vocabolo così preciso riesce a racchiudere per intero in sé. Alla superbia, la protervia aggiunge talora l’imperioso disprezzo di chi, mai dubitando delle proprie capacità, preferisce ostentare la sua superiorità anziché trattenerla in un altezzoso silenzio.

Una persona insolente, sfacciata o sfrontata è spudorata come chiunque appaia protervo, ma quest’ultimo può aggiungere, all’impudenza, la particolare furia, ferocia o violenza con cui porta il suo attacco (o controbatte) all’interlocutore del momento (la stessa già contemplata dal latino protervus). Il tentativo di sopraffare gli altri di un prepotente è lo stesso di un protervo, ma mentre il comportamento del primo è indotto da una semplice, occasionale e un po’ infantile volontà di imporsi, che ne esaurisce l’azione, dietro l’aggressività del secondo c’è la piena consapevolezza che ogni suo atto sia la manifestazione di una superiorità permanente, quella di chi ribadisce l’incolmabile distanza che lo separa dagli altri già prima di agire, e ben oltre l’agire.

Quest’ultima immagine si adatta perfettamente alla Beatrice dantesca. Nell’apparire al poeta, pur coperta in viso dal velo, la donna gli si mostra «regalmente ne l’atto ancor proterva» (Purg. XXX, 70). Si direbbe, più che rigida o impetuosa, come qualcuno ha spiegato, perfettamente compresa di sé e del suo ruolo di guida salvifica; fiera, maestosa e severa, come l’ammiraglio cui Dante l’ha paragonata un momento prima (v. 58).

Protervo era già stato adoperato da Dante appena tre canti prima. Lì delle capre, prima di ruminare tranquille (manse), erano state «rapide e proterve»  (Purg. XXVII, 77). Di quella protervia che, in questo caso, è indocilità e ribellione.

Per godersi un Purgatorio postmoderno, ReWriters consiglia Il purgatorio di Dante in graphic novel, di Ernesto Carbonetti. Una sorta di riscrittura di un Canto della Divina Commedia, utilizzando un linguaggio visuale, decisamente da generazione Zeta.

Condividi: