Le paure sono più sonore di qualunque altro pensiero.
Erica Jong

Quando sei vittima di una grave malattia, anche se ha colpito prima di te milioni di persone, finisci spesso per chiederti: “Perché proprio a me?”. Non ne avevi avuto paura, prima di prendertela, perché pensiamo sempre di essere, in questi casi, fra gli ultimi. Quando però avverti, e la politica, i mezzi di informazione e di comunicazione e il pensiero comune non mancano di ricordartelo continuamente, di essere l’ultimo a poter essere colpito da qualcosa che non è una malattia ma può far reagire allo stesso modo, allora la paura può montare in terrore e il terrore diventare quotidiana ossessione. Se poi l’ultimo non è la singola persona ma un’intera collettività, e la paura è quella che abbiamo degli altri, allora le nostre paure (la storia insegna) possono arrivare a uccidere, con le cacce alle streghe, i “dagli all’untore” o una folla che si trasforma in una mandria impazzita e travolge i più deboli; farsi annichilire dalla paura del terrorismo è dargli partita vinta in anticipo sui suoi attacchi, ed espone un paese al rischio che debba piangere le sue vittime prima ancora di essere preso di mira dal fondamentalismo religioso. Fra le paure più recenti c’è infine quella di essere “tagliati fuori” (Fear Of Missing Out, FOMO).

Sono tante le sfaccettature di un sentimento di paura, e altrettanti i suoi gradi d’intensità. Il latino pavor, che è all’origine dell’italiano paura, può comunicare anche solo ansia, eccitazione o altro, ed è talora perfino un trasmettitore di gioia: pavor pulsans (Virgilio, Eneide, v, 138) è l’agitazione di chi trema per l’attesa; laetus pavor è l’ansia gioiosa della trepidazione (Silio Italico, Punica, XVI, 432). Si ricollegano a pavor anche paventare e spaventare (con spavento), discendenti da*paventare e*expaventare (che risalgono al participio presente di due altri verbi latini per significare ‘impaurirsi, temere’: pavere ed expavere). Paventare, che ebbe in passato anche altri significati (‘atterrire’, ‘dubitare’, ‘esitare’, ‘sospettare’, ecc.), nell’italiano corrente vuol dire ‘intimorirsi’, ‘spaventarsi’, ‘provare paura’ (paventare una crisi, l’ennesimo scandalo; paventare di non riuscire in un’impresa; paventare che un progetto non riesca ad andare in porto), ma più precisamente immaginare che l’evento spiacevole che incute paura, il sentimento negativo che si teme prima o poi insorga, o qualunque altra cosa in quel momento turbi o sgomenti, possa verificarsi, avverarsi, colpire chi ne abbia timore.

Condivide la radice di pavor, ancora, pavidus. La parola italiana che ne è derivata (pavido), di tono letterario, indicante chi non mostri di possedere la forza d’animo o di volontà necessaria a fronteggiare una situazione, una difficoltà, un problema, è ben rispecchiata da pusillanime. Più forte di irresoluto, titubante, indeciso, e degli stessi timoroso o pauroso (familiarmente: fifone), quest’ultimo ha un significato prossimo a quello di vile, vigliacco o codardo, il cui contenuto semantico è ancor più denigratorio, e non disdegna di stare in compagnia di gretto o meschino. Pusillanime è attestato dal Duecento (circolava, anticamente, anche l’alternativa pusillanimo), e al medesimo secolo risale pusillanimità. Il termine del latino tardo da cui discende (pusillanimis) è un composto di pusillus ‘piccolo’ (o ‘piccino, meschino’) e animus, nel significato di ‘coraggio’; un pusillanime è dunque una persona poco coraggiosa, come suggerito da animo nelle espressioni farsi animo, perdersi d’animo (o in quest’esempio: «Su, animo, reagisci!»), ma questa considerazione non basta, anche in questo caso, a esaurire il senso di pusillanime.

Pusillus è un diminutivo di pusus (‘fanciulletto, ragazzino’), a sua volta derivato da puer (‘bambino, fanciullo’). È allora interessante  notare come in tante parole legate all’infanzia, alla fanciullezza o all’adolescenza, e non solo in italiano, incomba quasi il peso di una condanna: è puerile un comportamento che palesi i sintomi di una sostanziale immaturità, e il francese puéril può significare più o meno la stessa cosa (è invece spregiativo senz’altro l’inglese childish ‘sciocco, infantile’, da child ‘bambino’); bambino trae la sua origine da una parola onomatopeica (bambo) che in età antica, oltre a ‘fanciullo’, significava ‘sciocco’, per non dire di bambinesco (‘puerile, infantile’) o di bamboccio, per riferirsi a uno sciocco facilmente gestibile o manovrabile (un pupazzo, o un burattino); una ragazzata è un’azione compiuta con superficialità o leggerezza, e una mente piccina è limitata o meschina. In quest’ultimo caso, se riandiamo con la mente ancora al latino, ci viene in aiuto pisinnus: ‘piccolino’ e ‘bambino’.

A questo punto non resta che leggere Fanny, appunto, di Erica Jong, e farsi coraggio.

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