Adolescence: la nuova serie Netflix che ci dimostra quanto poco conosciamo i nostri ragazzi
Uscita da un paio di settimane “Adolescence” si candida ad essere già la serie Netflix più riuscita del 2025.

Uscita da un paio di settimane “Adolescence” si candida ad essere già la serie Netflix più riuscita del 2025.
Uscita da un paio di settimane Adolescence si candida ad essere già la serie Netflix più riuscita del 2025. Quattro episodi da circa un’ora ciascuno, girati interamente in piano sequenza, raccontano la storia di Jamie, un 13enne accusato di aver accoltellato a morte una sua compagna di scuola.
La mini-serie però non può essere considerata un crime, un giallo o un legal drama, poiché di fatto il delitto in questione viene risolto già nel primo episodio in modo decisamente incontrovertibile. Non è quindi la scoperta del colpevole a tenere incollato lo spettatore allo schermo e neppure la bravura degli investigatori o degli avvocati a farci parteggiare con uno o con l’altro protagonista.
A scuotere le coscienze non sono neppure le immagini dell’omicidio o della vittima di cui alla fine dei quattro episodi sappiamo davvero molto poco. Quello che, al termine delle 4 ore di visione, fa alzare dal divano continuando a pensare a Jamie e ai suoi genitori, ai suoi compagni di scuola o alla sua psicologa è il fatto che sono tutti paurosamente normali e che nessuno sembra neppure lontanamente ipotizzare che un delitto come quello possa capitare nelle loro vite.
Nessuno, omicida compreso. Tanto che, pur avendo prove inconfutabili sull’assassino, il poliziotto a capo dell’indagine non è soddisfatto e cerca un perché. E lo trova, nel modo più inaspettato forse e nel posto dove non aveva gli strumenti per cercarlo: sui social network grazie all’intermediazione di suo figlio, un altro tredicenne.
Quando ho finito di vedere la serie ammetto che, nonostante a quel punto sapessi esattamente chi fosse il colpevole e perché, ho continuato a pensare che forse mi ero persa qualcosa, che doveva esserci altro ad aver spinto così negli abissi degli adolescenti perché se fosse stato davvero tutto lì allora c’era seriamente da preoccuparsi. Ma non dei social o dei ragazzi. Ma di quanto poco sappiamo di entrambi e di quanto, se non corriamo ai ripari noi adulti, non saremo in grado di salvarne nessuno.
Quando il figlio del poliziotto, anche lui vittima di bullismo a scuola, spiega al padre il significato delle emoticon con cui la vittima commentava i post di Jamie, tutti i significati nascosti che hanno i diversi colori dei cuori, e cosa accade nella manosfera nascosta ma in bella vista, ammetto che io stessa ho pensato che la situazione fosse decisamente peggio di come ci viene raccontata.
Sul web i ragazzi, vivono una vita parallela, parlano un linguaggio tutto loro, scrivono in modo diverso, si insultano persino in modo quasi esclusivo che sfugge a chi, sul mondo virtuale, naviga per lavoro o per piacere ma conosce un mondo fuori. Mentre sono chiusi nelle loro stanze pensiamo che i ragazzi, adolescenti e non, siano al sicuro perché in casa, vicino agli adulti, con una famiglia ordinaria a controllarli, e invece sono molto più lontani di così e si perdono ogni giorno un po’ di più.
Adolescence ci sbatte in faccia una realtà che non possiamo ignorare: i modi che gli adolescenti usano per ferire i loro coetanei sfuggono al nostro controllo semplicemente perché non siamo in grado di comprenderli, il modo delle vittime di difendersi non è comprensibile per noi, persino le loro reazioni non sono quelle che crediamo naturali o che ci aspettiamo che debbano avere. Le vittime diventano bulli, i bulli assassini, gli amici degli assassini complici, il tutto dietro una facciata estremamente ordinaria.
E lo so che starete pensando che infondo è solo una serie tv e che la realtà non sarà così catastrofica, ma provate a chiederlo agli amici e familiari di Davide/Alexandra Garufi, il/la 21enne star di TikTok che si è tolt* la vita dopo che sul suo profilo erano piovuti insulti di ogni genere.
Non è più tempo di minimizzare, di provare a convincere i ragazzi che i social media non sono la vita reale, perché è l’unica che conoscono ed è quella in cui vivono, lavorano, studiano, giocano, si divertono, si innamorano, di disperano, tutto a favore di post.
E non servirà regolamentare le piattaforme, perché come impedisci a qualcuno di mettere un’emoji apparentemente innocua sotto un post di qualcun altro? Come impedisci a qualcuno sul suo profilo personale di parlare male di qualcun altro come se stesse al bar dello sport incurante che però la vittima potrebbe vedere e ascoltare tutto?
E allora la soluzione è un’altra: è la formazione delle famiglie e degli insegnanti a conoscere un linguaggio completamente nuovo per poter essere in grado di monitorare la situazione, è disporre di una rete strutturale di professionisti (leggasi psicologi di base e/o scolastici) capaci di intercettare un disagio e poterlo affrontare; è fornire ai ragazzi, sempre più piccoli, gli strumenti per affrontare il peso delle scelte fatte in nome di una libertà senza confini. Finora abbiamo insegnato ai nostri ragazzi che possono essere e diventare ciò che vogliono ed è vero, ma forse non ci siamo soffermati abbastanza sulle conseguenze che questo può comportare in un mondo totalmente interconnesso, dove culture e tradizioni si intrecciano nel tempo di un click.
Adolescence ci ha mostrato qualcosa che non possiamo più ignorare, qualcosa che abbiamo sempre avuto sotto i nostri occhi ma che era troppo faticoso affrontare, qualcosa con cui dobbiamo fare i conti e in fretta perché rischiamo che si moltiplichino i casi di chi risponde alla libertà di mostrarsi con la libertà di insultare e a quella di insultare quella di accoltellare a morte, perché in fondo, “non ho fatto nulla di sbagliato”.