After Life è una serie in tre stagioni scritta, diretta e interpretata dal satirista inglese Ricky Gervais (esito a chiamarlo comico, se non come esponente dell’umorismo nero britannico), noto in patria soprattutto come autore e attore nella serie The Office (su twitter si presenta come ‘scimmia senza Dio, scrittore, regista, attore, comico’). After Life è un prodotto per i nostri tempi: fa ridere, fa spezzare il cuore, e ti macera dentro.

Gervais è Tony, disperato vedovo sessantenne che medita il suicidio e sopravvive riguardando i filmati che gli ha lasciato l’amatissima moglie Lisa (Kerry Godliman). E’ anche un ex aspirante scrittore che lavora in un giornale gratuito locale, diretto dal cognato Matt (Tom Badsen) e vive nella casa comprata da Lisa.

Intorno a lui una folla di persone consistentemente buone, ognuna a modo proprio: le colleghe Kath e Sandy, il padre malato di Alzheimer, l’infermiera del padre, Emma, il collega ed amico Lenny (il fantastico Tony Way), che in varia misura tollerano la sua rabbia e la sua scortesia man mano che passa per le fasi del lutto.

Sarebbe tutto tristissimo ma Tony è un personaggio pieno di verve. Da marito innamorato dimostrava una predisposizione agli scherzi adolescenziali, che Lisa accettava di buon grado. Da vedovo, nella sua risoluzione di vivere dicendo tutto quello che gli passa per la testa, perché nulla ha importanza tranne il suo dolore, con le sue battute fulminanti presenta il ritratto di un egocentrico sarcastico e irascibile (chi di noi però non lo è stato dopo un lutto?), spesso simpatico, spesso commovente, a volte intollerabile. Beve, prova droghe per anestetizzarsi, mette a durissima prova la pazienza infinita del cognato.

Al cimitero, dove va a parlare con la moglie, incontra Ann, un’anziana signora che discorre con il marito Stan nella tomba accanto a quella di Lisa. Insieme, seduti su una panchina lungo i mesi, si chiederanno come vivere dopo. Lei è Penelope Wilton, la ricorderete come Isobel Crawley, la madre di Matthew in Downton Abbey, l’unica in grado di tener testa alla matriarca Maggie Smith.

La ricetta è semplice, dice Ann: per tirare avanti nonostante tutto – credenti o non credenti – bisogna spargere gentilezza e fare del bene agli altri, rendere il mondo un posto migliore. Tony fatica non tanto ad assorbire il concetto, che è nelle sue corde, ma a metterlo in pratica, anche se visita il padre in RSA tutti i giorni.

Non vi dico come va a finire, ma Gervais è riuscito nell’opera quasi impossibile di evitare le trappole del sentimentalismo. Alla galleria dei personaggi si aggiungono il postino (Joe Wilkinson), la sex worker Roxy (Roisin Conaty), la giovane apprendista giornalista Sandy, diversi altri comprimari, e una lunga teoria di indigeni che Tony e Lenny vanno a intervistare per il giornale locale, dal tipo che pensa di essere una bambina di otto anni, alla signora derubata, alla coppia di scambisti di mezza età. Gente che provoca fastidio, curiosità, compassione (“take a picture”, fai la foto, è il commento di rito di Tony prima che Lenny alzi la fotocamera).

C’è una grande ricchezza in questi inglesi così diversi per classe sociale, aspirazioni, prospettive di vita, e il fatto che Tony riesca ancora a interessarsi di loro – come della cagna che aveva preso con Lisa – è il suo aggancio al futuro. Ma quale futuro? Alla fine ci troviamo un po’ come nel finale del meraviglioso ultimo racconto di Gente di Dublino, I morti: scriveva Joyce, “La neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti”. La vita è un continuum, chi scende lascia il posto a chi sale; non ci piace, ma è così (Qui, Gervais parla di come ha immaginato la serie e il finale e delle reazioni del pubblico).

La serie After Life soffre
di alcune debolezze

Il Covid ha segnato una cesura, e la terza ed ultima stagione, in onda su Netflix dal 14 gennaio, è stata girata in piena epidemia (al virus si accenna infatti ma come fosse cosa passata, magari). Un paio di personaggi scompaiono senza spiegazioni, il che ha sconcertato molti spettatori.

Molti critici trovano che sia meno puntuta e meno efficace delle prime due; alcune storie secondarie annoiano e sembrano quasi dei ripensamenti, delle sbavature di sceneggiature. Ancora: a giudicare dalle attività di Emma, l’infermiera della casa di riposo, i malati di Alzheimer si gestiscono pettinandoli e rassettando le lenzuola (di nuovo: magari). La serie è girata a Londra, ma è ambientata a Tambury, un paesello dove tutti si conoscono e si incontrano continuamente, dove il tempo non ha costrizioni; forse anche i lutti così sono più semplici, forse no.

Non consiglierei After Life a qualcuno che sia sotto shock per una perdita; ma a distanza di tempo le riflessioni di Gervais possono prendere per mano e accompagnare nel dolore. E poi c’è l’ironia, quella che Tony non perde mai perché, disperato o no, è parte di lui.

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