In questi giorni di intense discussioni sul testamento di Silvio Berlusconi, molti azzardano un paragone con Succession e le vicende della famiglia Logan. Confronto improprio: quali che siano le colpe storiche del Cavaliere, non vi rientra l’esclusione dei figli dal controllo dell’impero.

La serie tv Succession, ideata da Jesse Armstrong per HBO, in Italia in onda su Sky Atlantic e in streaming su NowTv, sulla carta sembrava una storia vecchia: un magnate, i suoi quattro figli, lotte dinastiche; anche la morale evidente (troppi soldi fanno molto male all’anima) già esplorata (ricordate gli anni Ottanta di Dallas e Dynasty?)

Invece no. Perché nella storia di Roy Logan e dei suoi figli la successione è solo il movente di un dramma psicologico: gli eredi potenziali vorrebbero I’impero, anche se non lo sanno, soprattutto per dimostrarsi di aver guadagnato l’approvazione paterna, e in sostanza l’amore; è una realtà che si disvela puntata dopo puntata, erede dopo erede, scoprendo i loro guai, debolezze, precedenti e come il rapporto col padre sia da sempre al centro del loro universo e quali vie di fuga abbiano tentato.

Emblematica la sigla iniziale di Succession, con i filmini d’antan che documentano l’infanzia dei quattro, fra tennis, cavalli e ville, con un uomo adulto-patriarca che non si vede mai in viso ed è sempre sul punto di allontanarsi dall’inquadratura, di spalle, mentre gli occhi dei bambini lo seguono fra desiderio e paura.

La figura sadica e granitica del patriarca

La tragedia di Connor, Kendall, Roman (detto Romolus, come un imperatore) e Siobahn detta Shiv lungo le quattro stagioni assume toni shakespeariani. La trama è anche ripetitiva: lo spettatore perde memoria dei colpi di scena e delle innumerevoli giravolte in cui l’impero viene promesso ora all’uno, ora all’altro, tutte però utili a esplorare le dinamiche dei rapporti.

Il patriarca, un granitico Brian Cox (che come fanno i patriarchi si muove fra donne sempre più giovani, una più invelenita dell’altra) da un lato non vuole mollare il potere, anche se l’età che avanza e gli acciacchi gli suggeriscono che non è immortale, dall’altro vorrebbe trovare un degno erede, ma non si fida dei figli (“non siete persone serie” esplode nella quarta stagione, e ha ragione, non hanno mai avuto occasione di diventarlo); e in lui c’è anche una vena sadica che gli fa godere nel maltrattarli, nel gestire il suo ascendente, nell’obbligarli alla rivalità perenne.

Connor (Alan Ruck), figlio di primo letto, sembra essersi autoescluso in una torre d’avorio nel deserto; ma gli altri tre, nati da una aristocratica inglese, Lady Caroline Collingwood (la meravigliosa Harriet Walter) hanno condiviso l’infanzia in Inghilterra e periodicamente, teneramente, fra le reciproche cattiverie riemerge anche l’abitudine all’alleanza, ai giochi, alla confidenza, subito strangolata dall’ansia di primeggiare.

Kendall (Jeremy Strong) si sente l’erede legittimo e per reggere l’aspettativa cerca rifugio costante nella droga. Roman (Kieran Culkin) potrebbe essere brillante e invece si è forgiato un personaggio da piccolo Nerone, narcisista depravato alla ricerca di una madre.

Siobhan (Sarah Snook) forse la più talentuosa, esclusa dalla corsa fin dall’inizio perché donna, si è forgiata una carriera alternativa finché il padre non la illude di poter rientrare in gara (e lei, giustamente all’inizio scettica, purtroppo gli crede).

Succession e il potere dei soldi

Troppi soldi fanno male, certo: la presenza del denaro è straripante, non solo in macchinoni con autista e casa lussuose se non belle (e distribuite in ogni angolo del globo, Berlusconi style), ma nella facilità con cui arrivano droghe, investimenti immobiliari, trasporti (i tre si indignano quando nel corso di una delle loro rivolte contro l’autorità, il padre nega loro l’accesso alla flotta di elicotteri di famiglia con cui abitualmente si muovono).

E l’influenza politica. Diventa molto chiaro nel corso delle stagioni che Roy Logan ha in mano le sorti del Paese; non ha bisogno di scendere in campo direttamente come fece Berlusconi; gli basta prima scegliere il candidato alla Casa Bianca, poi cercare di aiutarne la vittoria con i suoi giornali e le sue tv (e infatti il figlio Connor si mette in testa di correre per la presidenza).

Nella figura di Roy, arrivato in Usa poverissimo quattordicenne dalla Scozia, si vede la critica a tanti tycoon mediatici e prima di tutto Rupert Murdoch che con Fox News ha orientato pesantemente la politica statunitense dell’ultimo decennio (Murdoch è australiano, Roy Logan in origine doveva essere canadese).

Così la serie Succession diventa anche denuncia di un mondo in cui ai cittadini non resta nessun vero potere, neanche nell’urna; di un giornalismo asservito nonostante gli scrupoli di alcuni pochi (veramente angosciose le puntate dedicate al network di famiglia soprattutto sotto elezioni); e dell’impunità totale che i soldi garantiscono. Solo che è difficile sottrarsi all’ammirazione per quest’uomo così spietato, così egoista, ma così indubbiamente capace di fare quello che si prefigge.

In questo bagno di cinismo, resta poco di vero. L’amore fra Shiv e il marito Tom? Lei non si fida e lui non sa se ama lei o la carriera che, sposandola, potrebbe fare. Tome è Matthew Macfayden, già Mr Darcy nel film tratto da Orgoglio e pregiudizio con Keira Knightley; è molto più credibile come cattivo da operetta che come eroe romantico. I suoi duetti con il giovane Greg, cugino povero che arranca alla corte dei Logan, ricordano davvero certe coppie comiche delle tragedie shakespeariane.

È vero l’amore dei figli per il padre, e viceversa? Connor sceglie e poi sposa una ex escort con velleità letterarie; lei sta con lui solo per i soldi? E tutte le donne di Roy (prima, seconda moglie più le amanti…) alla fine si ritrovano più solidali fra loro che con il patriarca; una sorellanza che però può nascere solo sulla tomba.

Nulla di vero fra i cortigiani maschi e femmine che si affollano attorno a Logan nell’impero. Sincero, forse, è solo il suo autista e bodyguard che sembra rimpiangerlo fino alla commozione. Non a caso la serie Succession – conclusa nel giugno 2023 – ha provocato infinite analisi psicologiche online. La vicinanza a un mondo così spietato è dura da digerire per lo spettatore, tanto più deve esserlo stato per chi l’ha vissuta; si dice che la moglie di Brian Cox abbia meditato il divorzio perché l’attore inglese portava a casa troppa rabbia, troppe parolacce.

Agli eredi dell’impero alla fine restano in mano le briciole – non in termini di soldi, ma di potere e di amore. Il padre se ne è andato e loro si dimostrano incapaci di altro che abbandonarsi al gorgo; un finale apocalittico, uno scenario di macerie di disamore che palesa il vuoto in cui si sono in realtà catapultati.

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