Agostino Arrivabene esporrà fino al 1 ottobre a Palazzo dei Diamanti di Ferrara una selezione di quaranta opere per una antologica presentata dalla Fondazione Ferrara Arte e il Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara a cura di Vittorio Sgarbi.

La mostra, dal titolo Thesauros, raccoglie esecuzioni significative tra dipinti e oggetti di mirabilia, appartenenti al suo lungo percorso artistico, a partire dal 1985. Le tecniche tradizionali e l’utilizzo dei preziosi materiali, con cui da sempre lavora, creano lo spazio per la sua personale ricerca figurativa dal particolare aspetto visionario, carica di riferimenti simbolici ed esoterici.

Ferrara, per Agostino Arrivabene, è un luogo d’eccellenza, patria di uno dei grandi maestri studiati direttamente a contatto diretto con le opere durante gli anni della prima formazione.

Agostino Arrivabene, Le mosche d’oro, 2014, olio, insetti e polvere d’oro su lino trasportato su tavola, Al. 44,2 x La. 40,5 cm. Collezione privata, courtesy Galleria Giovanni Bonelli, Milano

A questo proposito è utile un’introduzione.

Nella seconda metà del 1400 Ferrara, capitale estense, ebbe una cultura artistica di alto livello accolta in una città intenta nello studio del suo ampliamento e nelle possibilità di sviluppo che si concretizzarono in un’addizione articolata alla città medioevale, rigenerandola.

La spazialità urbana ricercata e realizzata dall’Architetto Biagio Rossetti (Ferrara, 1447 circa – Ferrara, 16 Settembre 1516) si riferì a una realtà figurativa da cui trasse l’idea di spazio, creando sorprendenti e rapidi passaggi di grandezze:

“contratte strettoie e spalancate aperture, fughe di linee e dilatarsi di atmosfere, e scarti, deviazioni, direzioni plurime e convergenti, divergenti, incrociate”.

E’ questo il contesto in cui si inserisce Palazzo dei Diamanti, progettato da Biagio Rossetti nel 1492; un raffinato studio di luci e ombre in una soluzione spettacolare, calata nella rigorosa prospettiva del tracciato cittadino, che ha il suo fulcro nello spigolo armato da solide paraste da cui sporge l’acuminato balcone d’angolo.

Photo by Pierluigi Benini, Palazzo dei Diamanti, Ferrara

Tra i grandi pittori del primo Rinascimento, uno dei protagonisti della scuola ferrarese è Ercole de’ Roberti (Ferrara, 1551-1456 – Ferrara, 1496). Egli lavorò prima sull’idea di spazio divenendo poi interprete della luce e della religione, come sentimento, di Giovanni Bellini (Venezia, 1427 o 1430 circa – Venezia, 29 Novembre 1516), che determinò la sua ispirazione religiosa.

Ercole de’ Roberti, Vergine in trono col Bambino, i santi Anna, Elisabetta, Agostino e il Beato Pietro degli Onesti, 1479/1481, olio su tela, Al. 323 x La. 240 cm. Milano, Pinacoteca di Brera – Opera di pubblico dominio.

Ne è testimonianza indiscussa la Vergine in trono col Bambino, i santi Anna, Elisabetta, Agostino e il Beato Pietro degli Onesti, detta anche Pala Portuense, oggi conservata alla Pinacoteca di Brera a Milano.

Fu dipinta tra il 1479 e il 1481 per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria in Porto Fuori a Ravenna, commissionata dai Canonici Portuensi in memoria del fondatore dell’ordine, il Beato Pietro degli Onesti, per volontà del quale la chiesa fu eretta.

La scena sacra si svolge sotto una maestosa architettura: una simulata vasta campata aperta sui quattro lati attraverso cui, in lontananza, tra le colonne poste tra basamento e trono, si scorge uno straordinario paesaggio marino in burrasca che allude probabilmente alla fondazione della Chiesa.

La storia narra che nel 1096 il canonico Pietro degli Onesti, di ritorno dalla Terra Santa, promise alla Vergine che, se fosse sopravvissuto alla tempesta che sorprese la nave su cui viaggiava, avrebbe fatto edificare una grande chiesa come ex voto per il miracolo ricevuto.

Nella pala la luce raccolta nella volta ricade uniformemente sulle figure disposte a piramide come elemento diffuso e armonizzante che, nel fondo, ha la densità di vapori atmosferici. Si contrappongono all’azzurro del cielo le tende rosse tirate lateralmente e fissate ai pilastri, che fanno da sfondo ai veli bianchi delle sante; mentre ai lati del podio ottagonale sono posti i due santi.

Tutti i personaggi rappresentati è come se si fossero svestiti della propria alterità assumendo una superiore dignità umana, legante di un’intesa profonda tra loro e del sentimento del comune sentire che in questo spazio trova la forma ideale di una dimensione spirituale nel luogo in cui, dal trono-tabernacolo, si manifesta il divino.

Agostino Arrivabene, Il sogno di Asclepio, 2015, olio su tavola antica, Al. 74 x La.127 cm.
Collezione Agostino Arrivabene

Questa è una delle opere di tradizione rinascimentale di cui è erede Agostino Arrivabene, dipinto che gli ispirò Il sogno di Asclepio (1915) e La grande opera (2016) presenti in mostra ed esplicito omaggio all’Officina ferrarese.

Agostino Arrivabene, Vittorio Sgarbi – Photo by Lucrezia Granzetti

Inoltre, una serie di opere dedicate alla pala portuense, collegano il maestro contemporaneo non solo a Ercole de’ Roberti ma anche indirettamente agli studi di Donatello, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti.

Agostino Arrivabene, La grande opera, 2016, olio su lino, Al. 150 x La. 250 cm.
Collezione Agostino Arrivabene

Nelle sale dell’Ala Tisi, interamente dedicate a Thesauros, l’allestimento è studiato in relazione all’asse prospettico tra il grande dipinto Erotomachia infera (2023) e Lucifero (1997); da qui si sviluppa l’indagine del disegnatore e pittore colto e raffinato, dotato di una tecnica precisa e di un’inesauribile fantasia che egli coniuga all’unità spaziale, prospettica e ragionata degli insegnamenti dei grandi maestri del passato, nella quale inserisce i propri personaggi.

Agostino Arrivabene, Erotomachia infera, 2023, Olio su lino, Al. 250 x La. 200 cm.
Collezione Agostino Arrivabene
Agostino Arrivabene, Lucifero, 1997, olio su lino, Al. 60 x La. 50 cm. Collezione Agostino Arrivabene

Agostino Arrivabene incarna oggi parte di quell’ideale dell’artista rinascimentale per il quale l’arte è ancora indagine, misura, conoscenza della materia e della scienza. Se l’occhio e il pennello sono gli strumenti per indagare le cubature architettoniche, allo stesso modo egli esplora la morfologia del paesaggio e delle pietre che lo compongono, utilizzando come supporto pittorico anche i legni fossili trovati in natura.

Agostino Arrivabene, Vergine fossile, 2020, encausto su legno pietrificato fossile, Al. 53 x La. 39 cm. Collezione Agostino Arrivabene

Ed è la stessa l’attenzione con cui analizza la realtà macroscopica della superficie terrestre e quella microscopica delle venature della pietra o dell’espressività dei volti che mettono direttamente di fronte alla dolcezza infinita o all’angoscia, al dolore, alla lacerazione, al tormento.

I suoi personaggi sono spesso trascinati da un movimento che suscita continuamente altre immagini che si accavallano, come pensieri affastellati nella mente, dove appaiono all’improvviso e, nell’istante successivo, altri li soverchiano e vi si sovrappongono.

Agostino Arrivabene – Photo by Lucrezia Granzetti

Egli è l’uomo, l’artista, il maestro che ha vissuto la morte dell’altro all’età di quattro anni, la morte di sua madre, ed ha compreso quanto l’umanità abbia smarrito le vie del genere umano fatto di animalità e singolarità, quelle direzioni da percorrere per la costruzione di un mondo in cui il bene di tutti si armonizzi al bene di ciascuno.

Dal dolore di quella morte particolare gli è stato possibile rivivere attraverso le figure che durante la crescita hanno contribuito ad una sua riconciliazione con la propria specie, come condizione fondamentale per restare, e non morire, con i propri morti pur prendendo atto dell’irreparabilità di queste morti.

Agostino Arrivabene, Erotomachia infera, particolare, 2023, Olio su lino, Al. 250 x La. 200 cm. Collezione Agostino Arrivabene

Nel bellissimo Erotomachia infera del 2023, Paolo e Francesca isolati dall’intreccio dei corpi dei dannati, sono avvinghiati e illuminati nel buio come corpi perduti per amore carnale. Il Canto V dell’Inferno è il più celebre, e il più commentato, della Divina Commedia di Dante Alighieri dove il peccare è un peccare non per mancanza d’amore ma per eccesso, che però è naturale all’umana creatura.

Agostino Arrivabene – Photo by Lucrezia Granzetti

Ma come le ali portano gli stornelli a larga schiera così quel vento, il fiato, trascina i dannati eternamente, senza che possano fermarsi, senza che possano riscattarsi.

«di qua, di là, di giù, di sù li mena;»

L’amore dei due amanti sembra appartenere all’ordo naturae: il canto sviluppa infatti un parallelismo nel verso 4o: «E come li stornei ne portan l’ali » incipit di una triplice comparazione ornitologica che comprende «E come i gru van cantando lor lai» al verso 46, e «Quali colombe dal disio chiamate» al verso 82 che viene a formare una perfetta simmetria con le famosissime tre terzine che s’aprono con la parola “Amor” e ritmano la confessione di Francesca, la sua triplice invocazione d’amore, un sentimento che vive ancora con la stessa intensità nell’Inferno ed è quasi una sintesi della sua vita affettiva e del suo dramma che si conclude con la morte.

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», v. 100;

«Amor ch’a nullo amato amar perdona», v.103;

«Amor condusse noi ad una morte», v. 106.

Agostino Arrivabene – Photo by Lucrezia Granzetti

Paolo e Francesca sono un uomo e una donna che Dante non conosce, persone non illustri ma che appartengono al mondo a lui contemporaneo. Sa come sono morti i due adulteri, li chiama ed essi accorrono.

Quali colombe dal disio chiamate

con l’ali alzate e ferme al dolce nido 

vegnon per l’aere dal voler portate;                       

cotali uscir de la schiera ov’è Dido, 

a noi venendo per l’aere maligno, 

sì forte fu l’affettuoso grido”.

Dante paragona questi esseri, degni del castigo di Dio, a due colombe chiamate dal desiderio perché la sensualità deve essere la parte essenziale della scena. Si avvicinano a lui e Francesca, che è la sola a parlare, lo ringrazia per averli chiamati:

«O animal grazioso e benigno 

che visitando vai per l’aere perso 

noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,

[dice ‘re de l’universo’ non potendo dire Dio essendo questo nome interdetto all’Inferno e in Purgatorio]

noi pregheremmo lui de la tua pace,

poi c’hai pietà del nostro mal perverso”

(vv. 91-93).

Agostino Arrivabene, Vittorio Sgarbi – Photo by Lucrezia Granzetti

La forza di questo incontro sta nella pietà con cui Dante rivela il destino invidiato dei due amanti che, pur finiti all’Inferno, si sono amati, sono uniti e così rimarranno girando per l’aria oscura e tenebrosa senza potersi parlare e senza la speranza che possano cessare le loro sofferenze.

Francesca si esprime al plurale dicendo noi per riferirsi alla schiera di anime uccise o suicide per amore che sparsero il proprio sangue, di cui lei stessa e Paolo fanno parte, ma al contempo affermando la volontà di voler rimanere insieme per sempre, seppur nella dannazione eterna, quasi se l’Inferno fosse un Paradiso.

La riprovazione di Dante è totale e ferma, tuttavia non condanna Francesca con severità intransigente e sprezzante, ma scusa il suo peccato umanamente perché quell’amore lo pone di fronte alla fragilità non soltanto di Paolo e Francesca ma anche della propria e di quella del genere umano, e da qui scaturisce la pietà per Francesca, per se stesso e per tutti.

Nella terribile battaglia per l’istinto sessuale niente e nessuno esce indenne; di questo potente scavo dell’anima, Agostino Arrivabene si fa persona poetica tanto più persuasiva quanto più rivive nella nostra fantasia, e quindi nella nostra coscienza, l’umanità della sua pittura.

La fragilità umana è, in Erotomachia infera, in quella donna, Francesca di Ravenna, che nell’Inferno non rinnega il suo amore; la sua morte, per coloro che restano, è l’apertura di un nuovo orizzonte di senso nei racconti di fragili personaggi, dentro propri mondi di solitudine e silenzio.

Dell’evoluzione artistica di Agostino Arrivabene influenzata anche dallo studio di Jan Van Eyck, dei Primitivi fiamminghi, di Albrecht Dürer, di Rembrandt, e della confluenza di motivi fiamminghi nella pittura italiana e viceversa, fanno parte l’osservazione dell’incontro tra le due civiltà figurative che dominarono l’Europa di quel tempo.

All’interazione che accresce nella produzione del ‘500 e del ‘600, sono riferibili dipinti giovanili dove luci incantevoli ravvivano i colori e li fanno splendere in una concretezza rappresentativa che non dia tregua all’occhio.

Mai sembra essere perso di vista il confronto della figura con l’ambiente, la volontà di un’analisi controllabile a misura di sensi umani, il fatto trascendente.

Ecco allora che i compiti dell’opera, negli anni successivi, saranno di testimoniare l’accettazione della vita e della sua necessità naturale, quella di dover morire, ma in lotta fino alla fine contro la sua stessa natura.

Le fotografie per questo articolo di ReWriters sono: di Agostino Arrivabene e di Lucrezia Granzetti scattate sabato 15 Luglio 2023, in occasione dell’inaugurazione della mostra di Agostino Arrivabene a Palazzo dei Diamanti di Ferrara.

Il servizio fotografico di Lucrezia Granzetti è stato autorizzato dall’Ufficio Stampa Fondazione Ferrara Arte ed è di proprietà di Elena Alfonsi.

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