Qualche settimana fa Il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva la Politica agricola Comune (PAC) per il periodo dal 2023 al 2027.

Come comunicato dallo stesso Parlamento, la nuova PAC, tra le altre cose, si propone di rafforzare la biodiversità nel rispetto delle leggi e degli impegni ambientali e climatici; introduce il 10% dei pagamenti diretti alle piccole e medie aziende agricole; stabilisce una riserva di crisi permanente da usare in caso di prezzi o mercati instabili; prevede delle sanzioni per chi viola le norme sul lavoro.

 Nondimeno, la nuova PAC mostra una palese e sorprendente contraddizione: essa risulta ancora troppo slegata dal progetto del Green Deal (ne parlo qui e qui), che non viene richiamato (se non per i piani nazionali) e dal quale non vengono importati obiettivi e finalità, con un approccio insufficiente sul piano delle politiche green, che sono invece fondamentali in ambito agricolo.

Ad esempio, i pagamenti diretti prevedono che almeno il 60% delle risorse vadano a pagamenti settoriali e misure di sostegno al reddito che non rispondono a criteri ambientali. Quindi alle grandi aziende e all’agricoltura intensiva. Non è stato introdotto il  tetto massimo ai fondi per le aziende di maggiori dimensioni, anche se è previsto che gli Stati membri redistribuiscano il 10% del budget dedicato a pagamenti diretti tra le aziende più piccole.

Ma vi è di più: agli eco-schemi, ossia i finanziamenti per gli agricoltori che presentano progetti legati a pratiche rispettose dell’ambiente, andrà il 25% delle dotazioni nazionali per i pagamenti diretti (49 miliardi). Bisognava osare di più.

 La politica appena approvata impegnerà il 32% del bilancio comunitario con 386 miliardi di euro (38 destinati all’Italia) dal 2023 al 2027, il che dimostra l’importanza di questa azione posta in essere dall’UE (un quadro generale, critico, lo trovate qui).

Ad eccezione di pochi e troppo timidi passi in avanti, come la condizionalità sociale (per ora volontaria) con cui si dovrebbero negare i sussidi a chi sfrutta i lavoratori, la nuova Pac è in realtà ancora vecchia. L’80% dei sussidi va al 20% delle aziende agricole più grandi, mentre le piccole fattorie con la tanto decantata produzione varia e diversificata non hanno accesso ai finanziamenti.

Le misure di sostegno vanno ad aziende che praticano la monocoltura e gli allevamenti intensivi, ma, come è risaputo, queste pratiche sono una delle principali cause di inquinamento che portano all’alterazione del clima.

Siamo ancora in attesa dei Piani strategici nazionali che gli Stati membri dovranno presentare alla Commissione Ue entro la fine del 2021, ma il contenuto di questi ultimi dipenderà molto dalle decisioni dei vari governi e, a riguardo, si sa che le scelte ecologiche sono più costose, più rischiose e più coraggiose. Bisognerà vedere quali Stati decideranno di osare.

Per ora, la nuova-vecchia PAC
ci dice tre cose

In primo luogo, i grandi Paesi e le grandi organizzazioni regionali-sovranazionali come l’Ue non hanno il coraggio di modificare l’approccio all’agroalimentare, puntando forte sull’agricoltura di qualità, ecologica e di piccola scala. Questo è un punto dirimente: i metodi agricoli alternativi a quello intensivo esistono e danno risultati, sia in termini di rispetto per l’ambiente, sia in termini di rese. Ma vanno incoraggiati, sostenuti, finanziati. Le iniziative europee in questo senso sono insufficienti.

In secondo luogo, l’idea rivoluzionaria del Green New Deal rimane ancora sulla carta perché le scelte dell’Unione sono poco attente e poco innovative sia in merito alla questione ambientale, sia con riferimento a quella sociale. Si continua a perpetrare il vecchio sistema, che aiuta i forti, lasciando indietro i deboli e si fa poco per modificare il modello produttivo attuale, che ci sta spingendo verso il disastro.

La previsione di sussidi a favore di grandi aziende è un’aberrazione: si altera il mercato e la competizione e lo si fa without a cause, cioè non per aiutare piccole realtà in difficoltà o aziende virtuose, ma a sostegno di chi non ne avrebbe bisogno. Oltre al dato pratico, stupisce la ratio di questo approccio, contrario all’idea del Green New Deal che mira a coniugare non solo crescita e ambiente, ma anche giustizia sociale.

In terzo luogo, le scelte dell’Ue appaiono miopi anche sotto il profilo culturale. Se non si offre un sostegno significativo alle forme alternative all’agricoltura industriale (di piccola scala e familiare, biologica, di prossimità, di qualità, ecc.) queste continueranno a essere percepite come di nicchia, per pochi, come eccezioni – costose – ai prodotti standard che siamo abituati a consumare e che producono maggiori ingiustizie invece di diminuirle.

Si rinuncia, in questo modo, a intervenire sulle scelte dei consumatori che, orientando il mercato e i suoi operatori, possono condurre questi ultimi verso azioni virtuose di lungo periodo. Ma questo non può avvenire senza la mano visibile dei poteri pubblici che spinga nella direzione giusta.

L’Ue ha perso un’altra occasione per farsi promotrice del cambiamento. Non possiamo che rammaricarcene.

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