Ho sempre provato una forte antipatia per Nanni Moretti, come per Woody Allen, entrambi troppo ombelicali per i miei gusti: autoreferenziali fino alla nausea. Eppure, nonostante l’antipatia e l’imbarazzo per la loro coazione al one man show, non mi sono mai persa un film, ogni volta inkazzata all’uscita dalla sala per esserci cascata di nuovo, nella seduzione di quelle irresistibili intelligenze.

La premessa sul mio pregiudizio negativo serve a rafforzare il plauso che invece levo su questo film, di una generosità mai vista nel cinema morettiano, quasi una conversione. Intanto, si tratta di un adattamento (è la prima volta del regista, sempre partito da un soggetto originale), e forse questo ha aiutato Moretti a parlare una nuova lingua, a umanizzarsi, preferendo il registro dell’autenticità a quello dell’ironia, sporcandosi le mani, uscendo dalla bolla di se stesso.

La trama ormai la sappiamo, il film è uscito quasi un anno fa: un condominio, tre famiglie, le loro vite. Lo stupore con cui ho spento il computer alla fine della mia home vision verte soprattutto sulla straordinaria verità e credibilità dei personaggi, a tal punto da vivere due ore di pura empatia con ognuno di loro (e sono tanti: Margherita Buy, Adriano Giannini, Alba Rohrwacher, Elena Lietti, Riccardo Scamarcio, Denise Tantucci).

Certamente il merito è in larga parte della sceneggiatura (in cui Moretti è accompagnato dall’autore del romanzo da cui è tratto il film, Eshkol Nevo, e da Federica Pontremoli e Valia Santella) e anche delle interpretazioni effettivamente magistrali, tutte.

Un lungometraggio che gronda intensità, in cui nessuno ha torto o ragione ed è impossibile (vi sfido) parteggiare per l’uno o per l’altro, nel conflitto in cui si trovano i vari protagonisti.

I personaggi negativi (Moretti giudice impassibile, Alessandro Sperduti suo figlio viziato e arrogante, la seducente Charlotte Denise Tantucci) sono incondannabili: perchè li capiamo in ogni loro piega e anfratto, per la capacità di raccontare la loro natura umana – che è sempre complessa e ambivalente – riabilitandoli.

Anche i personaggi positivi non sono piatti: Buy giudice e moglie di Moretti, madre accogliente e moglie devota, è però incapace di autonomia; Rohrwacher sola a crescere due figli, è in realtà vittima non del marito assente ma della sua mente.

Tutti, nessuno escluso, hanno le loro ragioni anche quando commettono torti, anche se abbandonano i figli, se seducono minori, se diventano omicidi.

E quando mai avevate visto un Moretti che sospende il giudizio? Mi viene da sorridere pensando a quanta consapevolezza sia fiorita in questo genio della regia per attribuirsi proprio la parte del giudice paralizzato da se stesso: complimenti!

E complimenti, appunto, per questa generosità verso i personaggi, verso il genere umano, per la capacità di restituirci la vita per come effettivamente essa è nella sua verità più pura, ossia sempre ibrida, inafferrabile, fluida, ambigua.

Anche il climax narrativo c’è tutto: aiuta, certo, quel fil noir che dà una certa suspense, fino alla fine, ma anche senza quell’escamotage, giuro, la trama incolla e ha un ritmo perfetto. E poi i grandi temi dell’oggi: dall’abuso infantile alla salute mentale, dalle relazioni tossiche (narcisista/co-dipendente) al dialogo intergenerazionale, fino al tradimento.

Ma sono salvi tutti i personaggi: ad ognuno è concessa l’opportunità di trasformarsi ed evolversi (tranne che a Moretti, che muore :D).

Insomma, fatevi sotto.

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