Seconda Pasqua in lockdown. Il mondo, ancora prigioniero di una vita sospesa, vive nella solitudine di un presente che dura da oltre un anno. Un tempo che sembra eterno e che ha cancellato i miti del narcisismo e dell’onnipotenza umana dell’era pre-Covid. Immagini sfumate di un mondo irrimediabilmente svanito. E oggi, decisamente più provati rispetto ad un anno fa, scartiamo il nostro uovo e ci chiediamo com’era prima, com’eravamo noi prima.

Come per tutte le invenzioni, in tanti rivendicano la paternità/maternità dell’uovo di Pasqua come lo intendiamo oggi. Se da un lato gli inglesi indicano dunque come inventore John Cadbury, che nel 1842 miscela e modella del cioccolato a forma di uovo come dolce dono pasquale, in realtà la vera patria natìa dell’uovo di Pasqua sembra essere proprio l’Italia. Anzi l’italiana Benedetta Giambone, titolare di una cioccolateria nell’attuale centralissima via Roma di Torino, che nel 1725 regala ai suoi nipotini un cestino pieno di paglia e uova di cacao ottenute riempiendo i gusci vuoti delle uova di galline con cioccolato liquido e miele. Li propone poi nella sua bottega e le neonate uova di Pasqua hanno così tanto successo che man mano diventano una tradizione destinata ad espandersi a macchia d’olio in tutto il mondo.

Il passo in avanti però scatta circa duecento anni dopo. Per la precisione, la storia dell’uovo di cioccolato come lo si conosce oggi prende il via negli anni ’20, sempre a Torino (che, del resto, fu la prima città d’Italia in cui arrivò il cioccolato nel Cinquecento, portato dalla spagnola duchessa Caterina). Il merito della creazione delle uova al cioccolato vuote, infatti, si deve a Casa Sartorio, azienda torinese che brevetta una macchina in grado di modellare perfettamente i gusci di cioccolato.

Rimanendo in tema di brevetti, appartiene sempre ad una donna il primo portauova, Alba Robinson che nel 1883 ha inventato una custodia per contenere correttamente le uova (delle galline però), con un imballaggio minerale per mantenerle asciutte e fresche.

Inventrici non con un “cervello da gallina”, anche se c’è chi direbbe il contrario. Pare infatti che questo modo di dire sia considerato, oggi, un complimento e non più un insulto. Ce lo dimostra una ricerca scientifica della Vanderbilt University di Nashville: gli uccelli, pur avendo una testa piccola, hanno un numero di neuroni superiore a quello dei mammiferi. E non a caso a scoprirlo è stata una donna, la neuro-scienziata Suzana Herculano-Houzel.

Per una volta, non siamo considerate il sesso debole. Ogni anno vengono uccisi miliardi di pulcini maschi in tutto il mondo: le stime parlano di una cifra compresa tra i 2.5 e gli 8 miliardi, 330 milioni di pulcini solo all’interno dell’Unione Europea e circa 40 milioni solo in Italia. I pulcini maschi sono considerati inutili, proprio per via del loro sesso: essendo maschi non possono produrre uova e non possono quindi portare profitto alle aziende. Animal Equality ha lanciato la campagna “Fermiamo la strage dei pulcini maschi“, con un appello al Governo italiano per chiedere che anche le istituzioni appoggino pubblicamente e promuovano l’introduzione di tecnologie che evitino queste uccisioni sistematiche.

Siamo galline quindi, che dopo aver fatto le uova ci siamo recate nel pollaio più vicino dove abbiamo imparato un’importante lezione di vita dalle altre amiche pennute: trovare un maschio che cucini per noi, o che almeno lavi i piatti. Ce lo racconta Claudia Dagostino nel suo libro Hensplaining, femminismo spicciolo per cervelli di gallina: la sorpresa che tutti i maschi dovrebbero trovare dentro l’uovo di Pasqua.

Chi da gallina nasce, convien che razzoli.

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