Arriva la quarta e ultima stagione di Atypical, commedia USA creata da Robia Rashid per Netflix, fra le più popolari della piattaforma; parla di un ragazzo diciottenne (all’inizio) sullo spettro autistico, e della sua lotta quotidiana per rincorrere i suoi sogni e adattarsi alla realtà. Ci sono tanti motivi per cui vale la pena vederla, e anche qualcuno per cui potreste trovarla insopportabile.  “Sono triste di arrivare alla fine, ma sono molto felice di averla potuta raccontare” dice Rashid. Attenzione: qualche minimo spoiler. Io ve l’ho detto.

Una serie furba, un cocktail moderno

Il mondo delle serie Usa (e anche dei film) in larga parte si inserisce nel filone feel good: la famiglia in particolare e gli affetti in generale sono perno e centro di gravità del mondo, e alla fine tutto si sistema. Rashid, sceneggiatrice di origine pachistana cresciuta fra il progressista Vermont e New York, aveva quarant’anni quando ha cominciato a scriverla nel 2017. Atypical è una serie furba: si ride molto, ci si commuove un po’, ci sono tutti gli elementi del cocktail moderno. Due genitori imperfetti e a volte in crisi ma pieni di buona volontà; due figli ciascuno coi suoi problemi (oltre al protagonista Sam c’è Casey, la sorella minore, promessa dell’atletica che si scopre lesbica, o forse bisex, e abbiamo sistemato un’altra casella dell’atipicità); una bella casa in Connecticut, un universo di amici e fidanzati con le loro bizzarrie, e comunque amor vincit omnia, sempre.

Ho qualche perplessità sull’operazione “vi faccio vedere come si vive bene con la sindrome di Asperger”: è meritoria, ma il pubblico poco informato potrebbe pensare che con una forma di autismo si viva sempre bene, bastano la volontà e una famiglia amorevole, appunto; o che crescere con un fratello o una sorella speciale sia sempre una passeggiata. (Nel tema, avevo apprezzato infinitamente di più The Big Bang Theory, di cui magari prima o poi scriverò.  Sebbene sia evidente, non è mai esplicitamente detto che Sheldon Cooper, interpretato dal meraviglioso Jim Parsons, abbia una forma di autismo o la sindrome di Asperger; questo riempie di sfumature il geniale Sheldon e gli amici che lo sopportano e lo amano).

A salvarci dalla melassa ci sono soprattutto gli attori

C’è Jennifer Jason Leigh come Elsa, la mamma: casalinga per stare dietro al figlio difficile (passa il tempo a piegare male lenzuola e cuocere torte; in queste serie americane non si vede mai nessuno che spazza per terra, né  padroni di casa né domestiche); da un lato chioccia, dall’altro àncora di salvezza. Leigh infonde a Elsa una disarmante, accattivante insicurezza. C’è il padre Doug, Michael Rapaport (gli aficionados di Friends lo ricorderanno come il fidanzato pompiere di Phoebe), convincente nei suoi tentativi di gestire vita, figli, moglie. C’è Nik Dodani, brillante Rahid, l’amico del cuore di Sam. C’è una folla di comprimari godibilissimi (fra cui la bella Trent Heaven Stewart come Izzie, amica e fidanzata di Casey).

Ma soprattutto in Atypical ci sono i protagonisti. Keir Gilchrist, Sam, ha 28 anni e non è autistico; ha lavorato ossessivamente per dar forma al personaggio. Nato in Inghilterra da genitori canadesi, trasferito da piccolo negli Usa e poi a Toronto, discendente di celebri economisti, fa l’attore fin da bambino. È anche il lead vocalist dei Whelm, una band metal underground; una passione che sarebbe impensabile per Sam, che detesta i rumori forti, fatica a empatizzare, lotta per integrarsi in una realtà che non capisce. “Sono strano” – dice in una scena commovente della prima serie alla sua terapeuta – “lo dicono tutti. A volte non so cosa intendono dire davvero le persone e questo mi fa sentire solo anche in compagnia”. Sam è innamorato dell’Antartide e in particolar modo dei pinguini – visita spesso un acquario locale; per animale da compagnia ha una tartaruga. Uscito dal liceo, si è iscritto all’università – nessuno ci credeva, e non perché fosse stupido – ma in questa ultima serie sogna molto più in grande; va a vivere con l’amico Rahid, e vuole raggiungere il paese dei suoi desideri, mettersi in viaggio da solo.

La sorella Casey: la carta
vincente della serie Atypical

La vera carta vincente di questa ultima stagione di Atypical però non è Sam, ma la sorellina Casey. Brigette Lundy-Paine, figlia di attori, anzi dovrei scrivere figliə; perché Brigette nel 2019 si è dichiarata non-binary e usa i pronomi they/them invece di she/her (garantisco che in inglese è meno difficile che in italiano, per tutta una serie di questioni grammaticali e d’uso). La sua evoluzione personale deve aver influenzato il personaggio. Casey fin dall’inizio è una ragazzina irriverente che corre per passione, tratta il fratello e i familiari con i modi un po’ ruvidi di un taglialegna affettuoso e non sembra aver sofferto di essere meno speciale di Sam. Ma nella quarta serie, speciale diventa davvero; direi anzi che sia lei al centro costante dell’azione. Oltre al suo orientamento sessuale, in gioco c’è il tema finale di Atypical: cosa significa avere successo.

Sam vuole esplorare l’Antartide e i pinguini, ma non sa se può farcela. Casey corre. Ha accettato una borsa di studio in una costosa scuola privata con tanto di uniforme e gonnellina, nella speranza di ottenere una borsa di studio come atleta per l’UCLA (Università della California a Los Angeles). Correre è la sua ragione di vita e la sua passione… finché non diventa la sua ossessione, non più una gioia ma un macigno.

E qui c’entrano la bravura della giovane attrice (del* giovane att*e), e la profondità della scrittura. Quale genitore potrebbe accettare che un figlio rinunciasse ai suoi sogni perché non gli/le portano più gioia? Qual è il limite fra la fatica (l’impegno) per avere successo e lo stress? Cosa conta: andare fino in fondo o essere felici? E come facciamo a capire cosa vogliamo fare davvero? Come finisce non ve lo dico, anche perché non ho ancora visto l’ultimo episodio. Ma il tema è scottante nella vita a qualunque età, e qui viene esplorato in modo complesso e convincente; sarà anche feel-good, però funziona.

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