Se ci chiedono di individuare la linea di confine tra il nostro corpo e il mondo esterno, la stragrande maggioranza di noi indicherà la pelle. A meno di non essere addetti ai lavori come il nostro blogger Giuseppe Frieri, che da anni studia e cura un altro fondamentale e particolarissimo confine: quello che si trova all’interno, nel nostro intestino.

Una superficie di centinaia di mq, aperta su entrambe le estremità ad un ambiente da cui ricaviamo il nostro sostentamento, ma pure carico di sostanze potenzialmente dannose.

Come funziona quindi la cosiddetta barriera intestinale?

Come un filtro altamente selettivo, anzi: come la cinta di una cittadella medioevale. Lasciando passare ciò che è utile, ovvero sostanze nutritive, acqua e all’occorrenza farmaci (e nel senso opposto i rifiuti, cioè i prodotti di scarto del metabolismo) ma individuando e respingendo tossine e patogeni e fornendo il loro identikit al sistema immunitario, affinché possa a sua volta riconoscere e distruggere eventuali presenze indesiderate.

La salute del nostro organismo, dalle viscere fino al cervello, dipende da un sofisticato sistema di simili barriere. Se questo meccanismo si altera e non funziona più come dovrebbe, le conseguenze possono manifestarsi ad ogni livello: metabolico, cardiaco, addirittura psichico.

È uno di quei terreni di ricerca che stanno consentendo alla medicina di elaborare un nuovo approccio alla cura: sempre meno focalizzato sul singolo organo e sempre più sulle interazioni sistemiche, sui rapporti tra predisposizione genetica e stili di vita, insomma sul complesso dei fattori che rendono unico ogni individuo.

La medicina sa da sempre che siamo diversi, solo non sapeva spiegare perché, conclude il professor Frieri. Per questo ai miei studenti insegno che l’intervento del medico è rivolto alla persona, non alla malattia. La conoscenza che abbiamo oggi del corpo umano impone questo: che la cura – anche in senso medico – diventi relazione.

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