L’Italia è un paese sismico; lo apprendiamo già alle scuole elementari, ma al di là di tutti i doverosi discorsi riguardo criteri costruttivi antisismici che sarebbe opportuno adottare, rimane dato ineludibile il fatto che centri storici ed interi borghi del nostro paese siano nati con presupposti costruttivi di grande valore storico, ma poco funzionali a prevenire questo problema.

Il 24 Agosto 2016, alle ore 3:36, una scossa di terremoto ha colpito il centro Italia, con epicentro tra i comuni di Accumuli ed Arquata del Tronto; questo evento fu solo l’inizio di una lunga scia sismica destinata a provocare in tutto 303 morti e 11.000 sfollati. Dai moltissimi articoli di giornale, servizi televisivi, dall’esperienza diretta di chi quei terribili momenti li ha vissuti, emerge però un dato su cui non siamo ancora sufficientemente preparati, quello della disgregazione sociale che un terremoto provoca, che rappresenta un elemento non facile da ricostruire. Le cronache che oggi raccontano di una ricostruzione de L’Aquila (colpita dal terremoto nel 2009) non ancora conclusa, di un centro storico che appare pian piano risistemato nelle sue pietre e nei suoi intonaci ma non ancora nella sua vitalità, si soffermano anche nel descrivere come la vita non sia in realtà ripresa nemmeno nei moduli abitativi provvisori, diventati ormai veri sobborghi, ancora senza trasporti e punti di ritrovo. Senza la ripresa di una vita sociale la città corre il rischio di diventare un cretto di Burri; un’opera d’arte che cristallizza un momento, perpetrando il ricordo del dolore

Il Grande Cretto (1984-1989) è un’opera di land-art di 98.000 metri quadrati che sorge sui resti del vecchio paese di Gibellina, che era finito completamente distrutto nel terremoto del Belice del 1968. Alberto Burri era uno degli artisti che l’allora sindaco volle per ridisegnare la nuova città, riedificata a 20 Km dal vecchio insediamento, al fine di darle nuovo slancio. Un nobile intento che però ad oggi non sembra aver sortito gli effetti desiderati. Questo perchè il tessuto sociale non è una rappresentazione teatrale che possa facilmente essere rimessa in scena in contesti diversi da quelli in cui si è sviluppato. Dopo aver visitato Gibellina nuova, Burri decise infatti di lavorare sui ruderi del vecchio paese, compattando le rovine e ricoprendole di cemento, ricalcandone la planimetria originale, creando cioè volumi laddove sorgevano gli edifici e un percorso labirintico dove c’erano strade. Burri ha avuto l’intuizione di mettere mano ad elementi che richiamavano l’idea di ferita e lacerazione elevando il dolore da esse derivante ad una dimensione artistica. Un’elaborazione del lutto che passa attraverso l’idea di ridare nuova vita alle macerie, con un intento germinativo e dunque di speranza. “Rimodellando i segni della catastrofe nelle forme di un eccezionale sacrario, si restituisce paradossalmente la vita a ciò che sarebbe destinato a diventare natura morta, [la vita] si ricostituisce nei percorsi riportanti alla luce la trama spezzata della comunità” (Antonino Cusumano).

Alberto Burri, Grande Cretto

1984-1989 (completato nel 2015)

Gibellina, Trapani

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