“Canterò, ballerò…”. Intervista al fotoreporter Shahidul Alam
Conversazione con Shahidul Alam, fotoreporter bangladese, i cui lavori sono esposti al MOMA, al Centro Pompidou e alla Tate Modern.
Conversazione con Shahidul Alam, fotoreporter bangladese, i cui lavori sono esposti al MOMA, al Centro Pompidou e alla Tate Modern.
Conversazione con Shahidul Alam, fotoreporter bangladese, i cui lavori sono esposti al MOMA, al Centro Pompidou e alla Tate Modern, maestro di tutta una generazione consapevole di fotoreporter asiatici, Persona dell’Anno Times 2018, protagonista nei giorni scorsi al MAO di Torino del Cono d’ombra, un dibattito su arte e censura.
C’è una foto di quando esci dal carcere (n.d.r.: nel 2018, la tortura e 107 giorni di reclusione per opposizione al regime) in cui brandisci la tua ritrovata macchina fotografica come il soldato che imbraccia il fucile e spara in aria per la vittoria. Prima che fotografo, ami definirti attivista politico. Per te l’arte è solo uno strumento, uno strumento più potente di altri. Ma quali sono i limiti del potere di questo sguardo?
L’arte è potente, ma non opera nel vuoto. Sono le forze di mercato che tendono a stabilirne il valore, e insieme a questo la sua diffusione. I media mainstream, i cosiddetti critici d’arte, Hollywood e Bollywood danno forma alla nostra percezione dell’arte. Perciò non basta produrre “grande” arte, bisogna assicurarsi che abbia impatto. La nostra mostra sulla caduta del presidente Ershad è stata visitata da 400mila persone in 3 giorni e mezzo e questo è un fatto più rilevante della qualità delle stampe esposte. Il potere dello sguardo dell’arte è limitato solo dal livello di coinvolgimento raggiunto.
Quanto il potere emotivo di una fotografia, piuttosto che la sua capacità di documentare, riesce a trasformarla nell’unico punto di vista possibile?
Anche le emozioni sono soggette alle stesse forze. Siamo addestrati a credere che alcune vite valgano più di altre. Ci addoloriamo di più e gioiamo di più e giustifichiamo di più in base a questi sistemi di valori. L’immagine del bambino Alan Kurdi, morto sulla spiaggia, era più emotiva di migliaia di altre fotografie di orrori e compositivamente migliori? Quella foto è diventata virale all’istante.
La “Pietà di Gaza” invece, l’immagine della zia che culla il cadavere della nipotina, ha vinto il World Press Photo 2024 ma è affogata nel diluvio della contropropaganda occidentale, per cui si sono mobilitati l’industria delle armi, Meta e X. La produzione dell’opera d’arte è solo una minima parte del ruolo dell’artista, sebbene importante. Il modo in cui uno si posiziona come artista, e come il contenuto emotivo della sua arte viene diffuso, è per molti versi più rilevante.
Un tuo allievo ha detto che le tue foto sono “un po’ noiose” ma che “attraverso la noia portano idee diverse”. Questa frase ha un senso? e come si concilia con la tua definizione “La fotografia è un evento reciproco”?
Se essendo noioso riesco a infiltrarmi negli spazi che voglio raggiungere, per me la noia è eccitante. Se le immagini eccitanti richiedono di conformarsi allo standard che definisce l’eccitazione, allora non vedo il motivo di diventare un artista. Quando parlo di reciprocità della fotografia intendo la reazione sia del soggetto che del pubblico, è questa chimica che mi emoziona.
Quel che è successo in Germania ti ha colto di sorpresa? (n.d.r: la Biennale tedesca di Fotografia Contemporanea 2024, di cui da un anno stava preparando i lavori come curatore, esaminando l’opera di fotografi di tutto il mondo, è stata cancellata, perché lui si è rifiutato di correggere la sua rotta nei commenti su Gaza).
Sì, perché la mia posizione di difensore dei diritti umani e di sostenitore della causa palestinese era ben nota. Per la prima volta avevano cercato un curatore radicale non europeo, immagino volessero qualcosa di diverso. Non avevo messo in conto di essere invece solo “un negretto” per riempire qualche casella di inclusione. Io mi preoccupavo che la BASF fosse uno sponsor chiave. Mentre loro si sentivano più tranquilli con il collegamento all’Olocausto che con la prevenzione del genocidio in corso. È ironico che pratichino la censura mentre si presentano come paladini della libertà di parola.
Com’è andato l’incontro su censura e arte a Torino?
Abbiamo parlato di quello che i media occidentali scelgono di vedere e di mostrare, e della loro ipocrisia, per esempio sulla Palestina. Ho citato Tolstoj a proposito della narrazione occidentale di essere campioni di libertà e democrazia: “Mi siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo e facendomi trasportare da lui, e tuttavia assicuro a me stesso e agli altri che sono molto dispiaciuto per lui e che desidero alleviare la sua sorte con tutti i mezzi possibili – tranne che togliendomi dalla sua schiena”. C’è stato un vivace dibattito anche con il pubblico.
Arte al servizio di qualcosa o arte che deriva da qualcosa: qual è il criterio della tua scelta di fotografare in bianco e nero?
Lavorerò con tutti gli strumenti disponibili e utilizzerò tutti i mezzi necessari. Fotograferò in bianco e nero o a colori o sceglierò un mezzo diverso, se necessario. Canterò, ballerò, scriverò poesie e persino combatterò se necessario, anche se sono un pacifista dichiarato. Sì, userò il bianco e nero quando lo riterrò il mezzo più efficace, ma non sono sposato con la fotografia, né con il bianco e nero, e non esiterò a scartare l’uno o l’altra se lo riterrò inefficace.