Erano gli anni Cinquanta, e in un’Italia piena di fiducia nel futuro, si teneva il primo Festival di Sanremo. Per la kermesse non furono scelti i mesi allegri di primavera, quelli sensuali dell’estate, o la dolce malinconia dell’autunno. No: il festival nacque nel febbraio ventoso. C’erano due buoni motivi. Il primo, più materiale, era il desiderio di incoraggiare il turismo invernale. Il secondo, più nobile, era Carnevale: con il festival a febbraio, ci sarebbero state canzoni nuove da ballare alle feste.

E questo è, Sanremo, in sostanza un altro volto del Carnevale

Febbraio è cupo; febbraio è crudele; febbraio è un tempo in cui chi è debole rischia la vita un po’ di più, e chi non lo è, ci si sente. Le gelate più pericolose sono ancora di là da venire. I bagordi del Natale sono passati, e i sensi di colpa di gennaio hanno, francamente, esaurito la nostra pazienza. Un tempo in questo periodo si stavano svuotando i granai, e anche se oggi, in Italia, trovare cibo non è un problema, un senso di svuotamento esistenziale resta. Sarebbe facile lasciarcisi andare.

Ma no. Essendo noi umani le scimmie testarde che siamo, ci ribelliamo al buio, e facciamo festa. Arriva il Carnevale, arriva l’inversione rituale di ciò che è importante e ciò che non lo è. Ci sono crisi, conti da pagare, amici che se ne vanno, problemi di salute, ma per qualche giorno, solo per qualche giorno, possiamo ritenere davvero importante una maschera di carta, un ballo da amici, cantare male, bere troppo, e se ci va di lusso, finire la notte in un letto nuovo. 

I moralisti, come piattole, si scagliano contro il Carnevale, oggi come sempre, e i moralisti, come piattole, si scagliano contro Sanremo, oggi come sempre.

Le prime pagine dei giornali dovrebbero essere riservate a cause più importanti del ballo del Qua Qua!,

tuonano i custodi del bene.

La vera musica è altro!,

ci ricordano i maestri del gusto.

Io non guardo Sanremo!,

sentono di dover dire amici le cui librerie sono piene di collezioni Adelphi, intonse. Se il festival è stato il canto della scorsa settimana, quelli troppo svegli per il festival sono stati il controcanto.

Ma quando la realtà è dura, evaderne è un dovere morale

Se nel cuore dell’inverno strappiamo al gelo qualche ora, se riusciamo a vivere momenti in cui sì, la cosa che più conta è la giacca indossata da Amadeus, allora stiamo compiendo un gesto epico, profondamente umano, una ribellione contro il destino, che alla fine vincerà, ma oggi no. Gli antichi Anglosassoni si riunivano nelle mead halls a bere e mangiare mentre fuori infuriava la bufera; noi abbiamo coriandoli e Berté.

Poi, quando il sipario cala, quando tiriamo via le ultime stelle filanti, si ritorna alla realtà. È inevitabile. Da oggi passiamo da Annalisa a Kieslowski, dalle chiacchiere fritte al tofu bio, e i giornali ci raccontano di guerre mondiali e genocidi. Finalmente, eh?

La realtà brucia, e a volte ci esplode in mano. Ma la lotta è più forte con una canzone in testa, e un po’ di glitter rimasto in qualche luogo segreto. 

E per capire quanto questo sia importante far festa, possiamo fare di peggio che leggere Michail Bachtin su Rabelais, o Laura Bonato su tradizioni vecchie e nuove.

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