Dialogare con un bene archeologico ben oltre il suo tempo e la sua funzionalità, è cosa assai ardua per chiunque voglia cimentarsi al cospetto di una vita, quella preistorica, condotta con qualsiasi privazione possibile ma dotata, sostanzialmente, solo dell’Indispensabile. L’impresa è ancor più ardua se tale sfida trova terreno di confronto in un museo archeologico che conserva reperti di grande pregio. Giovanni Morbin nel suo percorso espositivo presso il Museo Civico Archeologico di Bologna, a cura di Daniele Capra, ci racconta la sua fascinazione del reperto archeologico in una mostra antologica che riunisce oggetti dotati di un’utilità talvolta immaginaria.

La mostra riproduce la riflessione dell’artista tra defunzionalizzazione, rifunzionalizzazione e funzionalizzazione di un oggetto in una nuova dimensione concettuale e contemporanea. Circa 50 opere, dagli anni 80 o più recenti, sono allestite nella sala al pian terreno e nella sezione preistorica al primo piano, visitabili fino al 25 febbraio 2024.

La visione di Morbin, “le cose dall’alto”

Per raccontare la visione di Morbin ci conviene partire molto indietro nel tempo. La stazione eretta che l’Uomo ha assunto nel corso dei millenni ha conferito la possibilità di guardare le cose dall’alto: e cioè di avere quale punto di osservazione l’altezza dei nostri occhi. Questi elementi costitutivi ci hanno resi superiori a qualsiasi altra forma di essere vivente; nessun predatore (eccezion fatta per le scimmie con cui manteniamo un certo grado di parentela) poteva osservare dall’alto e usare gli arti superiori per fare qualcos’altro che non fosse arrampicarsi su un albero, strappare le carni di animali uccisi da altri predatori o addirittura cacciare.

Morbin riflette sul senso del pollice opponibile quale dimensione esistenziale che ha concesso, in primis e al di là di tutto, la possibilità di diventare esseri umani, dotati di un futuro antropologico e antropocentrico. Più che pollice opponibile, è l’opposizione del pollice che ha consentito – già ai tempi – di contrastare la norma fino ad allora acquisita. Del resto, se non ci fosse stata questa ancestrale condizione di opporre il pollice, l’avvenire sarebbe stato senza speranza.

Lo stesso Homo Habilis, nello scheggiare la selce, gesto primordiale che ha assicurato l’evoluzione, non avrebbe avuto il successo naturale che ha avuto. Per questa ragione, alcune opere che riproducono il pollice, sono esposte in un dialogo filologico accanto a punte di selce preistoriche. L’osservatore è scosso da un’intrusione che convince ed invita a riflettere su un oggetto antico la cui funzionalità è ormai perduta e un oggetto nuovo, il cui utilizzo è completamente assurdo o inesistente.

Il pollice dunque è il primo costituente di Morbin ed è applicato su qualsiasi materiale. E’ l’unico dito della mano che va oltre la dimensione baricentrica, uscendo fondamentalmente dal perimetro segnato dal palmo: esso stesso è contro la norma. Il pollice inoltre è il requisito unico e primordiale con cui un oggetto (pietra) può trasformarsi in strumento e rendersi concretamente utile all’umanità, poiché con la chiusura del pugno agiamo su qualsiasi cosa, rendendo il nostro arto funzionale alle necessità.

Quanto tuttavia quel pollice opponibile abbia concesso all’umanità la possibilità di realizzare sé stessa, talvolta anche con storture, è una riflessione attenta che ci sembra di cogliere nel percorso espositivo dell’artista. Nell’opera L’angolo del saluto (2006) il grande blocco allude all’angolazione assunta dal braccio durante la posizione di arringa o di saluto politico. Il volume ostinato del parallelepipedo insiste sulla pericolosità del gesto, recentemente attuale nella nostra cronaca, da cui bisogna prendere le distanze. Lo spigolo laterale costituito da materiale tagliente è l’emblema dell’allerta che bisogna mantenere nei confronti di deviazioni di senso che possono condurre l’umanità ad una sorta di involuzione; se è vero invece che l’uso del pollice ha assicurato l’evoluzione.

Morbin riflette dunque sull’arto più comune che abbiamo: la mano. In un sol colpo la nostra estremità diventa l’elemento sostanziale dell’agire di millenni. Con la mano facciamo tutto, anche oziare. Proprio all’inezia rimanda l’opera Manomissore (2023) in cui, su un grande blocco rettangolare di calce ossea, ossia quella utilizzata per risarcire le ossa umane, l’artista ha impresso lateralmente il calco delle proprie mani. La distanza tra le due incisioni corrisponde alla distanza delle mani dell’artista quando sono posizione di riposo, lungo i fianchi. Morbin conferisce così dignità artistica anche al non far nulla, come gesto che prelude al lavoro quotidiano. Nel mondo antico l’otium era considerato talmente indispensabile che la sua mancanza consisteva nel non otium, la negazione dell’ozio, ossia il negozio e quindi l’agire umano in ogni senso.

Le altre opere di Giovanni Morbin

Dello stesso avviso l’opera Manmano (2023-2024) in cui il gesto di stare con le mani in mano e far combaciare i propri palmi, viene restituito attraverso un foglio di terracotta che ne riporta il sottile strato di azione impresso proprio dall’accostarsi dei palmi, modellato sulle vene dell’artista, in cui si evince la nostra capacità di azione su tutto ciò che ci circonda. Paradossalmente, e ancora, il palmo della mano e il pollice sono gli unici elementi esistenziali che ci hanno permesso di raggiungere la Luna, riconoscendo in questa la più grande impresa dell’umanità.

La possibilità di interagire con molti degli strumenti dalla funzionalità assurda ci è sembrato un metodo felice per consentire al visitatore di diventare attore. Esperire dunque una dimensione nella quale si esortano delle riflessioni esistenziali più ampie.

Strumento a perdifiato (1996) è un corno in ottone la cui circolarità, attraverso una grande ansa, mette in correlazione la propria bocca con le proprie orecchie. Nel parlare all’ancia, il visitatore/attore parla a sé stesso dando vita ad una conversazione riservata e paradossale. Viene vivificata tutta l’autoreferenzialità del linguaggio umano che talvolta è intellegibile solo a sé stessi, mettendo in evidenza le grandi difficoltà di aprirsi ad una comunicazione empatica e attenta a ciò che ci circonda.

Giovanni Morbin, Guanti (1985). “Indispensabile”,
Museo Civico Archeologico di Bologna

In Mano, Testa e Porta (2002) il sangue dell’artista è divenuto colore rosso su tre tele. Guanti (1985) sono lunghi cilindri in filo metallico che l’artista ha indossato negli avambracci per rendere ragione dell’inerzia del non fare, impedendo il suo gesto artistico per il tempo in cui li ha indossati. Infine la foto Bodybuilding (1997) ricorda una performance di Morbin. L’artista ha inserito il proprio braccio in un edificio facendoselo cementificare. Ha mantenuto questa posizione per otto ore. Otto ore, ricordiamo, sono la misura del nostro tempo: otto ore di lavoro, otto ore di sonno, otto ore di vita. Morbin ha voluto restituire a questo fabbricato, che un tempo era un carcere, l’osmosi di un’umanità passata.

La mostra ha offerto una rilettura Indispensabile della realtà, insistendo a latere su quanto di più normale abbiamo: la quotidianità.

Giovanni Morbin (1956) vive e lavora a Cornedo Vicentino.

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