La Carta di Milano – ideata e approvata durante il percorso di EXPO 2015 e quindi consegnata al Segretario delle Nazioni Unite per renderla uno strumento del diritto internazionale per combattere gli squilibri alimentari mondiali – ha (aveva?) l’obiettivo di incentivare azioni, condotte e scelte per la tutela del diritto al cibo anche per le generazioni future e di sollecitare decisioni politiche atte a raggiungere l’obiettivo fondamentale di garantire un equo accesso al cibo per tutti.

Il documento, scritto e sottoscritto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e sponsorizzato da grandi statisti internazionali (Lula, Papa Francesco e altri), era stato presentato a EXPO 2015 come una richiesta, da parte dei cittadini, alle istituzioni che governano il cibo affinché queste si attivassero per cambiare alcuni paradigmi fondamentali relativi al cibo. Chiunque poteva sottoscrivere la Carta sul sito dedicato.

L’idea era buona: quasi una petizione popolare su scala mondiale. Sicuramente si è trattato di un interessante esperimento di democrazia partecipata, anche se redatta da esperti istituzionali.

Guardiamo al contenuto della Carta, strutturata attraverso vari elenchi che individuano premesse, aspetti critici, consapevolezze e soluzioni ai problemi legati all’alimentazione che affliggono il mondo. Più nel dettaglio, si articola come di seguito.
Una prima elencazione è dedicata ai punti di partenza su cui poggiare la Carta:

  • il diritto di accedere a una quantità sufficiente di cibo sicuro, sano e nutriente, e il cibo come valore sociale e culturale;
  • l’agricoltura sostenibile, che deve essere regolata affinché gestisca in modo equo, razionale ed efficiente le risorse del pianeta e l’accesso a fonti di energia pulita;
  • la coerenza dell’attività agricola con una serie di interessi a questa collegati, come la gestione delle risorse idriche, il paesaggio, l’ambiente e il territorio, la biodiversità.

Il secondo elenco è dedicato ad alcune distorsioni inaccettabili del settore agroalimentare. Queste possono essere così sintetizzate: le diseguaglianze nell’accesso al cibo; la contraddizione tra sotto-nutrizione e obesità; lo spreco alimentare; i danni alla biodiversità e alle risorse naturali; la povertà energetica, ossia l’accesso mancato o limitato a servizi energetici e strumenti di cottura efficienti, non troppo costosi, non inquinanti e non dannosi per la salute.

In terzo luogo, la Carta rende noti alcuni punti fermi e sfide da intraprendere: nutrire una popolazione in costante crescita senza danneggiare l’ambiente e preservando le risorse anche per le generazioni future; proteggere le componenti culturali legate ai cibi, che connotano e danno valore a un territorio e ai suoi abitanti; garantire i diritti, ma anche i doveri, di agricoltori, allevatori e pescatori, sia come piccoli imprenditori sia come grandi imprese; riconoscere una responsabilità diffusa della custodia della terra, della tutela del territorio e del suo valore ambientale; promuovere e diffondere la conoscenza e l’educazione alimentare; sostenere e proteggere un tipo di agricoltura sostenibile, che coinvolga tutti gli attori sociali e istituzionali del settore.

In questi primi elenchi – che costituiscono la parte destruens, di critica, del documento – si affrontano le contraddizioni tipiche del modello alimentare. Ad esempio, secondo gli estensori della Carta di Milano è inaccettabile che vi siano contemporaneamente così tante persone che muoiono di fame, mentre un numero altrettanto cospicuo, se non maggiore, è obeso.

Veniamo quindi al quarto elenco della Carta che, proprio per affrontare problematiche e contraddizioni, esplicita gli impegni che dovrebbero emergere dalla sua approvazione. Impegni e raccomandazioni rivolti ai cittadini e ai consumatori individuali (ad es. la moderazione nella quantità evitando gli sprechi e l’adozione di comportamenti responsabili e pratiche virtuose, come riciclare, rigenerare e riusare gli oggetti di consumo); alla società civile nel suo insieme (ad es. la partecipazione attiva in tutti i livelli decisionali, al fine di determinare progetti per un futuro più equo e sostenibile e la promozione dell’educazione alimentare e ambientale ); alle imprese (ad es. applicare e rispettare le normative e le convenzioni internazionali in materia ambientale e sociale e investire nella ricerca).

A questo punto, i cittadini del Mondo, sottoscrivendo la Carta, chiedono ufficialmente ai governi, alle istituzioni statali e alle Organizzazioni internazionali, di sottoscrivere a loro volta una serie di impegni. Questi riguardano, inter alia: adottare misure normative per garantire e rendere effettivo il diritto al cibo e la sovranità alimentare; rafforzare le leggi a tutela del suolo agricolo e delle popolazioni locali; sviluppare un sistema di commercio internazionale aperto, basato su re­gole condivise e non discriminatorio; promuovere patti globali, rispettando le esigenze e le diversità locali; tutelare i soggetti più deboli (donne, piccoli agricoltori); includere il problema degli sprechi e delle perdite alimentari.

In conclusione, si deve dire che l’iniziativa della Carta presenta numerosi aspetti positivi:

  • è inclusiva e aperta alla partecipazione diffusa;
  • è utile a sensibilizzare l’opinione pubblica su temi delicati e controversi;
  • prende posizione contro pratiche palesemente dannose e molto diffuse.
  • Negli impegni richiesti si fa prevalere la qualità alimentare rispetto alla standardizzazione; la redistribuzione e la tutela dei soggetti deboli rispetto al business.

Sin qui le note positive. Tuttavia, già sei anni fa c’era la consapevolezza che la Carta potesse divenire l’ennesimo manifesto di buoni propositi privi di attuazione concreta. E così è stato. Nonostante l’enorme (e ormai fastidiosa) retorica che gira attorno al cibo come diritto.

Per cui oggi dobbiamo chiederci: che fine hanno fatto la Carta di Milano e i suoi buoni propositi? Ebbene, se cercate sul web, quasi tutti i risultati sono risalenti al 2015.

Una delle pagine più recenti, del 2017, è quella di Altraeconomia, che ci conferma come quel manifesto sia ormai uscito dai radar e posto nel dimenticatoio. Un interessante spin-off viene invece dall’Università Bicocca: il lavoro multidisciplinare “Rethinking Urban and Food Policies to Improve Citizens Safety After COVID-19 Pandemic”, curato da un gruppo di esperti in ambiente e biodiversità, sicurezza alimentare, alimentazione umana e medici dell’Università Milano-Bicocca, dell’Università degli Studi di Milano, dell’Università di Pavia e dell’ICS Maugeri I.R.C.C.S. di Pavia prende spunto da alcune idee contenute nella Carta e cerca di renderle concrete soprattutto in contrapposizione all’emergenza del Covid. L’iniziativa è interessante, ma il merito è della Bicocca. Quanto alla Carta di Milano in sé, questa sembra essere solo uno spunto da cui partire.

Inoltre, a contribuire alla sua scarsa attuazione si aggiunge il fatto che alcuni dei numerosi impegni previsti dalla Carta e richiesti alle istituzioni competenti hanno il difetto di essere generici e un po’ vaghi. A volte sembra di essere di fronte a quelle che si chiamano petizioni di principio (esempio: “produrre e commerciare alimenti sani e sicuri”; oppure “promuovere la diversificazione delle produzioni agricole”; ecc.): tutto bellissimo, ma in concreto?

Essi, inoltre, richiederebbero significativi e importanti interventi regolatori per opera di autorità pubbliche e governi, sovente a detrimento di grandi interessi privati: l’approvazione di norme a tutela del suolo agricolo, l’eliminazione delle distorsioni commerciali, la promozione di diete alimentari sane e di un consumo critico, ecc. Si tratta di forme di regolazione pubblica che, ancorché condivisibili e condivise dall’opinione pubblica, una volta attuate potrebbero avere l’effetto di limitare molto l’iniziativa economica privata , sottoposta a interventi pubblici pervasivi e intrusivi.

Ma quale autorità o governo, oggi, avrebbe il coraggio di fare una cosa del genere?

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