Non tutti sono al corrente del fatto che una grossa fetta delle emissioni di CO2 dipendono dall’agricoltura.

Per la precisione, vari studi confermano che, a livello mondiale, circa il 25% delle emissioni di CO2 sono prodotte da fonti agricole, fra le più importanti la deforestazione, l’uso di fertilizzanti ricavati da fonti fossili, e la combustione di biomasse. Qui alcuni dati più di dettaglio, che distinguono le sostanze che incidono di più sull’inquinamento.

In Italia, uno studio dell’ISPRA ha calcolato che le emissioni di gas a effetto serra in agricoltura negli ultimi 25 anni sono state, in media, di circa 30 milioni di tonnellate all’anno. Sul tema, Barilla Center for Food and Nutrition, Agricoltura sostenibile e cambiamento climatico, 2012.

Non solo, il mondo dell’agroalimentare, come già ribadito in più occasioni proprio in questo blog, è responsabile per numerosi danni alla salute umana, animale e vegetale e annovera nel proprio settore numerosi casi di sfruttamento della manodopera con condizioni lavorative molto discutibili, come il capolarato, il lavoro nero e lo sfruttamento di lavoratori a basso costo e in condizioni degradanti in molti Paesi in via di sviluppo produttori di materie prime.

Per queste ragioni, a più livelli, in ambito internazionale, europeo e statale si ragiona su come ridurre tale impatto. Tra le diverse iniziative per affrontare questi problemi, mi preme segnalarne una, che scaturisce dal UN Food Systems Summit e dal UNFCCC COP26 di Glasgow, con il lancio (il 14 dicembre 2020) della Glasgow Declaration, ancora aperta per la firma di altri membri e che dovrebbe essere adottata nel corso del 2021 (le ratifiche sono ancora poche, e nessuna proviene dall’Italia).

What is it all about? Si tratta di una sorta di chiamata all’azione, che vuole coinvolgere non solo gli Stati, ma anche e soprattutto tutti gli attori che si operano nei contesti locali e regionali – subnational, come recita il testo inglese – quindi nei territori all’interno dei contesti nazionali, per affrontare le problematiche segnalate, impegnandosi a rendere l’agroalimentare meno inquinante, più sano e più equo nel trattamento dei lavoratori del settore.

Più in dettaglio, la dichiarazione prevede, essenzialmente tre iniziative:

1. Adottare e sviluppare politiche e strategie alimentari integrate e finalizzate alla lotta al cambiamento climatico; assicurando che tali strumenti siano posti in essere con il coinvolgimento di tutti gli attori della filiera, con strumenti di monitoraggio, cooperazione e collaborazione tra i diversi attori coinvolti.

2. Ridurre l’emissione di gas serra provenienti dai sistemi urbani e regionali di produzione alimentare, in conformità all’Accordo di Parigi e ai Sustaible Development Goals; e costruire sistemi alimentari sostenibili, in grado di ricostituire l’ecosistema e di produrre diete alimentari sicure, accessibili, salutari e sostenibili per tutti.

3. Richiedere ai governi nazionali di costruire dei modelli di regolazione e politiche di sostegno che siano multi-livello e multi-soggettivi, con sistemi di decisione condivisa e coordinate, in modo da rendere più globali determinate decisioni strategiche sull’agro-alimentare.

A riguardo, è utile citare il Documento di accompagnamento. Questo fornisce spiegazioni più elaborate delle scelte contenute nella Dichiarazione, in merito alle quali occorre sottolineare due aspetti importanti.
Il primo riguarda l’aspetto globale di tale iniziativa: i problemi elencati in premessa non sono esclusivamente nazionali o locali, ma sono ormai mondiali. Per questo, nella dichiarazione si punta in modo radicale e netto sull’integrazione tra i diversi attori, sulla cooperazione e sulla condivisione delle decisioni. A un problema mondiale si cerca di contrapporre risposte mondiali.

Il secondo aspetto, particolarmente originale, riguarda il coinvolgimento degli attori subnazionali, il che rivela un approccio ispirato alla cosiddetta glocalization: il cambiamento a livello mondiale deve partire infatti dagli attori locali: città, regioni, aree interne. Sono questi attori i primi a essere chiamati ad agire per un’agricoltura che sia effettivamente sostenibile.

Sin qui, come in casi analoghi, il più recente in occasione della Carta di Milano di EXPO 2015 il giudizio è sempre il medesimo: belle parole e ottime intenzioni, ma cosa c’è di concreto? Quanto è efficace tale modello? Riuscirà a cambiare le cose? O rimarrà l’ennesima dichiarazione priva di attuazione?

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