“Chi sogna può muovere le montagne”. Fitzcarraldo era un avventuriero arricchito dal caucciù che per raggiungere una nuova terra smontò una nave, superò una montagna con i pezzi al seguito, la rimontò e conquistò la sua meta. Di questa leggenda coloniale Werner Herzog ha fatto il suo capolavoro più visionario. Ma nelle settimane dopo il Covid un nuovo Fitzcarraldo ha trasportato sul Vesuvio una barca da pesca, quella utilizzata nel presepe vivente di Baselice, per sollevarci tutte e tutti oltre la crisi, con lo sguardo fisso sulle nuove sfide ma i piedi ben piantati nella terra contadina e le mani immerse nella tradizione della cucina italiana. Lui si chiama Daniele De Michele, aka don Pasta, economista, antropologo, film maker, musicista reso noto dalla pratica di sonorizzare vinili e cucinare sapori antichi per il suo pubblico per condividere storie, territori e memorie a partire dalle quali costruire nuove forme di comunità.

Il document-immaginario Anticorpi, su cui sta lavorando dai giorni del lockdown, si aprirà con questa impresa perché, spiega Don Pasta “esiste un limite oltre il quale le fragilità diventano resistenze, assieme. Sarà epoca dura per gli ultimi, per i contadini, per gli operai, per gli artisti, per i precari di un mondo che sfrutterà il Covid per selezionare i più forti. Esiste un limite oltre il quale la fantasia diventa un’arma violentissima per proteggersi”. Un primo anticipo artistico dell’idea è comparso a luglio sulle mura di Bergamo, cratere della pandemia, dove la street artist Juliet ha raffigurato e disseminato in città, con il supporto del collettivo Maite di Città Alta e ai volontari di Superbergamo, graffiti con i volti di “chi non c’è più, i lavoratori e lavoratrici degli ospedali e chi si è messo al servizio degli altri”, accompagnati dalle scritte mai più.

In attesa di “Anticorpi” su Audible, con Sara Sartori e Alice Gussoni, Don Pasta ci regala nel Podcast “La Repubblica del soffritto” 44 storie di terra e storie di cucina: vite di resistenza creativa impastate da curiosità, emozioni, con un’esigenza senza fronzoli di senso storico e politico, più stringente in periodi come questo. “A che serve l’arte? E se gli artisti non avessero più soldi, tempo e spazio per potercela fare a esprimersi? – si chiede Don Pasta – E se gli artisti smettessero di pensare alle cose del mondo? Come starebbe il mondo senza quello sguardo? Allora gli artisti dovranno tornare per strada, come gli operai, rioccupare gli spazi negati, fisici o poetici fa lo stesso, in sintonia con tutti gli altri esseri fragilizzati”. Don Pasta lo fa riorganizzando voci raccolte in un viaggio fatto qualche anno fa nei luoghi dove sono nate le nostre tradizioni culinarie: voci di campagna e di cucine, di chef stellati e nonnine, pastori e contadini che ci regalano uno sguardo sul presente laterale pieno di sapore.

Donpasta entra tra vigne e case, si fa raccontare dai suoi ospiti un piatto o un prodotto, chiacchiera e poi mangia con loro decostruendo l’instantanea foodie per precipitare l’ascoltatore nell’antropologia, l’ecologia, il femminismo, la cultura e il futuro del cibo in Italia, grazie a storie anche molto intime d’amore, guerra e resistenza. “Queste voci per molti anni le ho tenute per me, mi sono rifiutate di farle vedere e sentire  – ci spiega l’autore – troppo ‘a vivo’, troppo difficile raccontare l’emozione degli incontri. Quel viaggio ha risettato, innanzitutto dentro di me, le cose del mondo, e per questo dopo l’esperienza del Covid è stato impossibile trattenerle ancora”.

“Penso a Edoardo e Lino, un pastore e un vignaiolo: vengono da una scolarizzazione semplice e fanno riflessioni che neanche Socrate – racconta ancora – perché il mondo rurale ha problemi pratici e ogni problema pratico ha un pensiero da fare che non può essere un pensiero qualsiasi, ma deve essere quello che ti porta in salvo e ti consolida. Penso a due partigiane, Giacomina e Mirella: rivoluzionarie e sfrontate. Molto anziane e per questo ancora più sfrontate. Nei giorni del lockdown quasi tutti abbiamo messo le mani nella farina, abbiamo fatto la pasta, il pane, perché nel momento di maggiore smarrimento le mani e la farina ci hanno parlato di chi siamo davvero, di come vogliamo vivere, di che sapore vogliamo abbia il nostro futuro. Una rivoluzione a portata di piatto che i nostri vecchi ancora praticano e che non possiamo lasciarci sfuggire”.

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