In Iran continuano quasi ininterrottamente le proteste di un intero popolo che la teocrazia khomeinista non riesce più a sedare. È la prima volta in 43 anni.
Tutto è cominciato il 13 settembre scorso, giorno in cui la donna curda iraniana Mahsa Amini è stata arrestata a Teheran da quella che viene definita la polizia morale iraniana, che regolarmente sottopone donne e ragazze ad arresti e detenzioni arbitrarie, torture e altri maltrattamenti solo per non aver rispettato l’obbligo di indossare il velo. Due giorni dopo la giovane 22enne è morta per conseguenze legate al pestaggio subito dopo il suo arresto.

Da allora, come accadde nel 2011 con la morte di Mohamed Bouazizi, venditore ambulante che si diede fuoco in segno di protesta e da cui ebbe inizio la primavera araba – una delle tante e sanguinose rivoluzioni del mondo arabo – le donne sono scese in piazza dando vita ad una vera rivoluzione femminista ed hanno iniziato ad opporsi ad un sistema che le vede quotidianamente maltrattate e private di ogni loro basilare diritto.

Con loro si sta ribellando un intero popolo che rappresenta di fatto il nuovo volto dell’Iran. Una popolazione che è principalmente composta da giovani uomini e donne che lottano a costo della propria vita in nome di una prospettiva di vita futura fatta di libertà e democrazia.

Consideriamo che, secondo l’Osservatorio Economico del Governo italiano, più della metà della popolazione è al di sotto dei 35 anni di età e che l’età media è di 27 anni. Più che una rivolta contro l’obbligo per le donne di indossare il velo sembra a tutti gli effetti una rivolta contro ogni dittatura.

In questo scenario pochi mancano di rilevare che il regime iraniano, tutt’oggi guidato da uomini ultra settantenni come l’84enne Ali Khamenei che ne è la guida suprema religiosa, ha sempre usato la religione come arma politica per sottomettere e controllare il popolo, specialmente le donne, ma che adesso quello stesso popolo non è più disposto a vivere sotto dittatura, in un paese in cui le persone vengono private della propria libertà e nel quale vengono repressi diritti umani e civili.

Che si tratti di uso strumentale della religione da parte del governo presieduto da Ebrahim Raisi è evidente, così come lo sono le motivazioni che hanno dato luogo a tutte le rivolte. Giustizia sociale, libertà, violazione dei diritti umani, fame e corruzione sono i comuni denominatori che hanno dato vita alle principali rivoluzioni popolari degli ultimi decenni.

Quello che allora dobbiamo chiederci è come reagirà il governo iraniano e quante persone ancora dovranno morire in nome della libertà. Se pensiamo alle precedenti rivoluzioni possiamo immaginare che, pur di mantenere il proprio potere, il governo iraniano sarà disposto a cedere anche su questioni apparentemente importanti, come l’obbligo del velo, e nel farlo avremo l’ennesima conferma del fatto che la religione viene unicamente usata per controllare e reprimere un popolo.

È ciò che sta accadendo anche in Egitto, prossimo alla rivoluzione, e che continua ad usare la religione per controllare il popolo. Si tratta quindi di una questione di potere e non di religione, si tratta di combattere la dittatura e non l’obbligo ad indossare il velo. Si parla di libertà che sono di tutti e non solo dell’Occidente.

Il paradigma donne e libertà

Donne e libertà formano in questo caso un paradigma su cui è doveroso riflettere, partendo dal loro coraggio che le spinge a resistere contro uno Stato che le considera oggetti nelle mani degli uomini, fino al potere che la rete ed i social media stanno dando loro in termini di visibilità e organizzazione della protesta.

Sono donne di tutte le età, molte di loro giovanissime, affiancate da migliaia di uomini anche loro di ogni età, che sfilano pacificamente per le strade delle loro città, che vogliono studiare, lavorare ed essere finalmente libere. Tutto questo anche grazie alla rete che le sostiene, ne diffonde le istanze e racconta loro il vero significato di una vita libera.

Guardando i loro volti e la forza con cui affrontano la repressione del regime, dovremmo comprendere che siamo diretti testimoni di una rivoluzione senza precedenti, la prima della storia intrapresa dalle donne e per loro stesse, che riguarda i loro diritti, la loro stessa vita. Una rivolta politica per le libertà di tutte le donne che, a mio giudizio, insegna molto anche a noi europei.

Ci insegna sia a presidiare sul rispetto dei diritti acquisiti sia a pensare alla rete così come alla tecnologia come strumento di libertà. Quella libertà che le giovani iraniane hanno imparato a conoscere grazie ai social media, a quella finestra sul mondo che le ha portate lontano dai divieti, dagli obblighi e dal patriarcato che ha tolto loro tutto, istruzione, dignità e lavoro.

Noi donne europee dovremmo iniziare a farci ispirare dalla loro voglia di libertà e dovremmo sentire più forte il senso di responsabilità nei loro confronti, nei confronti di una intera generazione che sogna di vivere libera, anche a costo della propria vita.
Questa ennesima rivoluzione mi auguro sia utile, oltre che per liberare le donne arabe dalla sopraffazione di uno Stato tiranno e criminale, per capire che il male assoluto sono sempre e solo le dittature e non le religioni. E che è nostro compito aiutarli a costruire uno Stato finalmente libero e democratico.

La voce femminile dell’Iran

Per avere un punto di vista autentico sulla situazione che stanno ancora oggi vivendo le donne iraniane, consiglio di seguire i profili social di alcune attiviste, giornaliste e scrittrici iraniane, come Azedeh Moaveni, firma del Time e scrittrice di numerosi libri sull’Iran, la blogger Golnaz Esfandiari, Mahsa Alimardani ricercatrice dell’Oxford Internet Institute e Alinejad Masih uno del volti simbolo dell’attuale rivolta.

Infine, suggerisco una lettura originale e sorprendente, Persepolis il fumetto autobiografico di Marjane Satrapi. Una storia senza dubbio originale e profondamente illuminata grazie alla quale la protagonista ci racconta la sua vita di bambina e di donna cresciuta in Iran negli anni della rivoluzione islamica. Il The Guardian lo ha inserito tra i cento migliori libri del Ventunesimo secolo.

Condividi: