Sacro e profano: davvero si escludono così radicalmente? Per Émile Durkheim, ideatore della dicotomia, sì. Ma antitesi, opposizioni e incompatibilità si accarezzano. E tutti i saperi, anche quelli profondamente contrari, si cercano, si toccano, si mischiano, fino a intrecciare le proprie radici e ad averne – paradossalmente – qualcuna in comune. 

Come Chiara e Sissi. Che importa se intimamente diverse per epoca, intenti, pensieri e comportamenti? Che importa se una è Santa, l’altra Imperatrice? Se una è Cielo, l’altra è Terra? Combattono la stessa rivoluzione di donne coronate, sbattono i pugni per quei desideri che smuovono le viscere, recidono le chiome lunghe e composte, s’insinuano prepotentemente nel loro (e nel nostro) contesto storico e culturale, scardinando morale e princìpi, urlando la loro individualità, terremotando l’assetto antiquato delle loro società.

Lo spirito e il sentimento – eccolo il minimo comune denominatore – sono gli stessi. Dominatrici, determinate, insofferenti, scomode, ingombranti, fanno parte della stesso campo semantico rivoluzionario: è ciò che le fa sentire simili, tra loro e a noi stessi. E infatti, in direzione contraria allo sguardo maschile e ai modelli patriarcali, s’incontrano e dialogano in un ballo della mente, a piedi nudi, mentre vengono considerate pazze da chi proprio non riesce a sentirne la musica.

Vicky Krieps // Il corsetto dell’Imperatrice – Marie Kreutzer

Chiara risoluta e indomita

Voglio vive’ in povertade: lo ammette Chiara, ferma e decisa. Il titolo del film di Susanna Nicchiarelli, presentato in anteprima mondiale alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, rievoca un’opera teatrale che, da Shakespeare a Pirandello – con Riccardo III e Enrico IV – racconta le gesta straordinarie di un personaggio eroico.

Ma non si tratta né di un sovrano né di un uomo: la protagonista è una giovane donna. Il palcoscenico è l’Umbria, la scenografia una chiesa medievale, oggetti di scena – pochi – un cesto, una brocca, un uovo e del pane, l’atmosfera sospesa. Il resto dello spettacolo è un susseguirsi di azioni (e immagini) in difesa della povertà – che coincide con l’identità – estremamente radicale: la Santa (interpretata da Margherita Mazzucco) difende strenuamente il diritto a non aver nessun diritto di proprietà, la garanzia a vivere senza garanzie. Che sottoscrive un modo di vivere, ma anche di pensare e di amare.

Chiara dice no: alle nozze altolocate, nuovo blasone e figliolanza. I colloqui con Francesco – che la innamora della Povertà – durano fino a cinque anni prima della consacrazione: è il 1212, lei ha solo quattordici anni, lui ventisei. Francesco attira Chiara con la sua predicazione che le risuona dentro fino a farle rendere la dote ai nullabbienti, rifiutando così anche il titolo di nobiltà.

Lascia la casa paterna per raggiungere la Porziuncola: i frati la attendono con torce accese e forbici alla mano, Francesco le taglia i capelli (gesto abusivo – la consacrazione delle vergini spettava ai vescovi – ma straordinario). Si rifugia nel monastero benedettino di San Paolo per sottrarsi alla reazione violenta dei familiari, vivendo come serva, perché priva – per scelta – di quella dote respinta.

Insofferente ancora all’ambiente facoltoso e a ogni gerarchia, lascia il monastero e, nella chiesetta di Sant’Angelo in Panzo – sopra Assisi – riunisce un gruppo di donne che professano penitenza senza sottomettersi ad alcuna regola.

La raggiunge la sorella Agnese e insieme scendono accanto alla chiesetta di San Damiano, luogo pieno di significato, legato alla conversione di Francesco, e in cui l’esperienza di Chiara trova la sua collocazione, il suo equilibrio – delicato – da ricalibrare ogni volta. La sua santità sembra metterla in soggezione, quasi la fa arrabbiare, la destabilizza; le cade una porta addosso ma è leggera come un mantello: ho fatto un altro miracolo? Risoluta e per niente docile, vorrebbe viaggiare il mondo, come gli uomini ma orgogliosa di essere donna, ribellandosi a quella richiesta di mansuetudine che la famiglia prima, e la Chiesa poi, le impongono.

Chiara e Francesco sono ciechi insieme, si incontrano nell’osteggiare gli ideali comuni dei ceti di appartenenza: denaro e potere. Si fanno largo nel buio delle difficoltà ma non a tentoni, si appoggiano l’uno all’altro, conservando la propria unicità, percorrendo ciascuno la propria strada, con un’unica meta comune.

Sono giovani e ricchi, desiderano essere poveri e (ri)conosciuti, il loro gesto è un rifiuto generazionale, per mezzo di un itinerario religioso, che viene quasi laicizzato seppur mantenendo un’aura di sacralità. Chiara, che nello stomaco ha il fuoco, è come la si immagina ma non per questo banale: unisce generi, alterna canti e danze sacre, addenta la fede, confermandosi icona gentile dall’animo rock.

Margherita Mazzucco // Chiara – Susanna Nicchiarelli

Sissi eroina tragica

Elisabetta, invece, è cieca da sola ma vede fin troppo bene nel buio di una nazione che canta che viva a lungo e che resti bella, in cui si sente (co)stretta, in una corte in cui non ha nulla da fare se non acconciarsi i capelli. Il corsetto dell’ImperatriceCorsage di Marie Kreutzer – senza alcuna pretesa di minuziosa attendibilità storica, anacronistico nell’estetica ma non nell’essenza – soffoca finalmente la figura romantica, angelica e angelicata della sovrana interpretata da Romy Schneider, quasi fosse il suo doppelgänger.

L’Imperatrice d’Austria non è più come la si immagina, se non nella lunga capigliatura: dall’attitudine poco ottocentesca e molto punk, è (volutamente) più alta di Franz Joseph, magra ma senza vitino, incompresa e intrappolata in un palazzo troppo piccolo.

Coinvolgimi, chiede al marito, il cui unico desiderio non è amarla ma addomesticarla, accentuandone l’insofferenza. Umorale, fredda, spigolosa, costantemente in apnea (nella vasca da bagno come nella vita), respingente e inadeguata ma solo in apparenza, perché compassionevole verso le donne (quelle dell’ospedale psichiatrico) nelle quali si riconosce. Porta i nostri stessi anelli e ha i nostri stessi tatuaggi, uno su un dito della mano, un altro sulla spalla sinistra in ricordo di un viaggio – tutto al femminile – in Italy

Vicky Krieps // Il corsetto dell’Imperatrice – Marie Kreutzer

Sissi – che si fa inviare foto delle donne più belle di tutti i regni, le guarda spasmodicamente, come scrollasse Instagram – ha quarant’anni (come l’attrice che la interpreta, Vicky Krieps, Premio Un Certain Regard Migliore interpretazione al Festival di Cannes 2022, ancor più sensazionale che ne Il filo nascostoPhantom Thread) ma non vorrebbe compierli. Troppo vecchia per un altro figlio, si sottrae così all’Imperatore, restando vogliosa di scambi e stimoli, più cerebrali che sessuali.

Non supera i cinquanta chili e indossa una veletta che le copre il viso, è ossessionata dall’immagine e dal peso, ma di riflesso: tutti la guardano, la giudicano, controllano se e quanto ingrassa, se e quanto invecchia. Il corpo diventa prigione, mentre lei è bulimica di attività fisica, si sfinisce di nuoto, ginnastica e scherma.

Anoressica di noia, si nutre con arancia tagliata a fette sottili o spremuta di chili di carne bovina. Entusiasta del nuovo e del bello e quindi anche di Louis Le Prince (inventore e precursore dei fratelli Lumière), preferisce le sue avanguardiste immagini in movimento alla pittura abitudinaria. 

Pure Elisabetta dice no. Cavalca sola contro la sua immagine di rappresentanza, fuma nevroticamente anche se non sta bene, fugge, non trova pace, si taglia i capelli (altra mossa eloquente e significante) e si tuffa in gesti estremi e di protesta che riecheggiano quelli dell’Ophelia di Millais, della Catherine di Truffaut o di Virginia Woolf, fino a sentire il richiamo del suo personale fiume Ouse, morendo tra le onde, anarchica e non per mano di un anarchico.

Danzando sui suoi titoli di coda, per affermare e restare ancorata a sé stessa. Eroina – e eroinomane – tragica, vuole essere libera di coprirsi o andare in giro nuda, vivere la maternità ma senza esserne fagocitata, invecchiare, seguire o ignorare la moda e l’estetica e persino di trangugiare cioccolato. Con l’unico intento di essere vista come è: bella, per davvero. Asserendo che è affar suo quello che fa con il suo corpo, come quello che fa della sua stessa vita. 

Nicchiarelli e Kreutzer, attraverso due biopic anticonvenzionali, universalizzando le figure di Chiara ed Elisabetta, dipingono un ritratto – musicale e in movimento – plurisfaccettato, psicologico, umano di due donne che fuggono la dimensione femminile canonica, scoprendone quella femminista. Contro ogni incasellamento, Santa e Imperatrice, ugualmente complesse e smaniose di autodeterminarsi, vengono catapultate nella contemporaneità.

Le registe riconsegnano alla storia Chiara e Sissi con tutti i loro conflitti interiori, regali e reali, così come sono: minute ma gigantesche. Dirigendo un unico film che ci costringe a rivedere anche la dicotomia sacro-profano. Che, pare, non si escludano poi così radicalmente.

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