L’Africa è un continente enorme. Lapalissiano? Mica tanto, se si considera che molti non sanno localizzare i vari paesi sulla cartina. Sono quasi sicura che fosse Igiaba Scego in La mia casa è dove sono a scrivere che in molti – quando pensano agli africani – li pensano come tutti provenienti da un grande villaggio, sempre lo stesso (idea esternata in commenti del tipo: “Oh ma sei somala! Allora conosci Tizio Caio che viene dal Mali!”). L’Africa è anche un continente ricco ed estremamente saccheggiato da secoli di colonizzazione e post-colonizzazione: basti pensare al coltan in Congo o il petrolio in Nigeria. Alcune zone (l’est, il corno) sono fra le più devastate dal cambiamento climatico che ha portato siccità e cicloni mai visti prima.

Imbolo Mbue, classe 1982, è nata a Limbe in Camerun, ma ha studiato tra il New Jersey e New York. In Italia credo che il suo romanzo più celebre sia Siamo noi i sognatori uscito per Garzanti. Non mi risulta che How beautiful we were sia stato tradotto, ed è un vero peccato. Mi sento di consigliarlo lo stesso però a chi legge o sta iniziando a leggere in inglese, dato che lo stile e la scelta dei vocaboli non è particolarmente complessa.

 Omar El-Akkad del New York Times ha definito l’incipit di questo magnetico romanzo cli-fi come pervaso da una “claustrofobia morale” e non posso che essere d’accordo. L’antefatto delle vicende del libro è che una compagnia petrolifera, la Pexton, fa il bello e il cattivo tempo da una ventina di anni in una zona vicino al villaggio (inventato) di Kosawa. Dopo aver insozzato le acque del fiume, a partire dal 1977 (la storia è ambientata nell’80) la compagnia ha fatto qualcosa di peggio. Questo peggio – oltre alle perdite di petrolio continue sui campi dei poveri contadini – ha letteralmente avvelenato acqua e aria. I bambini allora, più deboli, hanno iniziato a morire come mosche. Gli uomini che si sono recati in città per chiedere spiegazioni sono spariti nel nulla. La Pexton intanto ha mandato a cadenza regolare i propri garbati rappresentanti a rassicurare la popolazione con una gamma di bugie sempre nuove. Gli abitanti sanno benissimo che la compagnia petrolifera – americana – è appoggiata dal governo e che, in caso di opposizione di massa, sarebbe capace di mandare i soldati a fare poltiglia di Kosawa. Una dinamica che somiglia a certi modi di fare mafiosi codificati.

Ebbene una sera, all’ennesima riunione finta, il matto del paese (quello che sente le voci, anche quella dello Spirito) si ribella e dà il coraggio al resto del villaggio di rapire gli inviati della Pexton. Questa azione cambierà per sempre il corso della microstoria di Kosawa e della storia personale della giovane, combattiva protagonista, Thula.

Un romanzo in prima persona plurale

Fin dal principio una cosa mi ha incuriosito. Il capitolo iniziale dove avviene l’incidente scatenante, è tutto narrato utilizzando il noi come se a raccontare non fosse solo la protagonista ma una collettività unita ed egualmente ferita. Lo trovo geniale, il lettore viene accompagnato dentro a un punto di vista collettivo, con valori e spiritualità probabilmente lontani dall’Occidente, tuttavia carico di una prospettiva umana e sofferente che non ci è estranea. Pensiamo all’Ilva o alle proteste contro lo stoccaggio di anidride carbonica sotto Ravenna. Ecco, se la cli-fi esiste anche per riconoscersi nel punto di vista dell’altro e nelle ragioni di eco-giustizia dell’altro, questo libro fin dalle prime pagine dice al lettore sia che gli esseri umani sono tutti uguali per dignità e rispetto sia che il neo-liberismo in fondo non riconosce questo principio fondamentale. Gli uomini della Pexton (un Leader e due yes men) sembrano schiavisti settecenteschi con vestiti contemporanei – e il brutto è che sono credibili.

Sul Camerun, da cui Imbolo Mbue proviene, Monica Di Sisto aveva scritto facendo un quadro generale della situazione femminile e parlando del sostegno alla formazione delle donne del progetto Elle. Non è un caso che Imbolo Mbue faccia prendere le redini della situazione a una ragazza, Thula, figlia di quella generazione di bambini che ha visto i propri compagni morire in tenera età. Thula è arrabbiata e la sua rabbia è la stessa di chiunque abbia vissuto sulla propria pelle che in certe situazioni il profitto conta più della vita umana. In Africa – con lo spettro delle percezioni coloniali ancora ben vivo – accade spesso.

We were beautiful espone anche il vuoto della retorica dell’aiutarli a casa loro. Che cosa vuol dire aiutarli? Spesso non è una faccenda di inviare soldi e cantare We are the world. Per aiutarli davvero a casa loro spesso occorrerebbe mettersi contro a colossi dell’economia occidentale come la Pexton del libro, colossi ai quali i governi spesso faticano a dire di no perfino quando intervengono nello stesso Occidente. O prendere provvedimenti davvero significativi contro il cambiamento climatico. Mi verrebbe da dire che questo libro mostra che l’Occidente dovrebbe piuttosto non inguaiarli a casa loro.

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