Tutti ne parlano, ma pochi – in contesto italiano – la praticano. Che cos’è davvero la climate change fiction?
Il termine, coniato dall’ex giornalista e insegnante Dan Bloom, è stato così definito da due accademici fra i primi a occuparsene, Adam Trexler e Adeline Johns Putra: “è quella letteratura di finzione che rappresenta il problema del cambiamento climatico per come è stato definito dai confronti fra scienziati e, più in generale, per come è stato percepito nell’opinione pubblica dal 1970 in poi”. È importante precisare quale tipo di cambiamento climatico definisca la cli-fi: un testo come Il mondo sommerso di J. G. Ballard, spesso citato come esempio del genere, tecnicamente invece non rientra nella cli-fi nonostante faccia parte a pieno titolo dei suoi antenati celebri provenienti da utopia/distopia, romanzo apocalittico e fantascienza. In quel particolare libro di Ballard difatti la catastrofe non avviene per cause umane. Stesso discorso vale per altri grandi romanzi apocalittici post-nucleari come L’ultima spiaggia di Nevil Shute o I figli della polvere di Louise Lawrence. In questi due casi, il disastro è causato senza dubbio dagli umani ma non ha a che vedere con il cambiamento climatico se non come conseguenza di un attacco nucleare.

La cli-fi dunque parla di cambiamento climatico antropogenico, cioè causato dall’essere umano per mezzo di emissioni di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera, un processo iniziato dopo la rivoluzione industriale. Il legame fra l’azione umana e l’aumento della temperatura è stato comprovato per la prima volta dagli studi di C. D. Keeling il quale, dal 1958 al 2005 anno della sua morte, compilò tabelle riguardanti l’aumento della temperatura in rapporto alla percentuale di CO2 nell’atmosfera riscontrando un rapporto direttamente proporzionale.

Il fine della cli-fi è creare immaginari per portare i lettori a pensare al cambiamento climatico in tutta la sua enorme dimensione: è oramai provato quanto quel che sta accadendo, nella sua interezza, sia impercettibile all’essere umano per ragioni strutturali legate al nostro apparato cognitivo che non afferra i fenomeni troppo grandi.

Gli umani percepiscono il meteo, non il clima. L’immaginazione serve proprio a visualizzare il problema, a non lasciarsi cogliere impreparati e a reagire. Gli oggetti troppo massivi per essere percepiti direttamente dall’apparato sensoriale umano sono definiti dal filosofo Timothy Morton Iperoggetti (hyperobjects). Ecco, la cli-fi lavora per creare storie che portino i lettori a figurarsi un enorme, pericoloso iperoggetto.

Il meccanismo è quello dell’utopia e della distopia: tutti e tre sono generi militanti. Fu infatti per criticare la pratica della reclusione delle terre comuni sancita da Enrico VIII Tudor (che peggiorò la qualità dela vita di molti contadini) che Thomas More inaugurò il genere scrivendo Utopia, un’incitazione a immaginare quella che secondo lui sarebbe stata una società migliore, all’epoca inesistente. La spinta è a sviluppare l’immaginazione per migliorare la propria condizione e, nel caso della cli-fi, quella del mondo. Il cambiamento va sempre prima immaginato.

Si mettono in scena dunque le ricadute del cambiamento climatico antropogenico sulla società umana; e qua c’è un altro mito da sfatare. Ci sono stati grandi esempi di cli-fi realistica che riprende pedissequamente previsioni di scienziati e le mette in scena: Qualcosa là fuori di Bruno Arpaia, autore che ha il merito di aver aperto la letteratura italiana al cli-fi, è l’esempio classico. Arpaia difatti rifiuta la definizione di distopia: “parlo di cose che stanno già accadendo”, ha spiegato in un’intervista, “o che stanno per verificarsi. Se proprio bisogna dare un’etichetta al libro, preferisco presente estremo o realismo aumentato”. Tuttavia, quello di Arpaia non è l’unico modo di affrontare il genere. Su posizioni contrapposte, Adam Trexler nel libro Anthropocene Fiction, il primo ampio studio sulla cli-fi, riflette su come il cambiamento climatico debba spingere a rivedere le categorie di antropocentrismo/ecocentrismo, globale/locale, presenza/assenza, idealismo/oggettivismo, natura/ambiente, separazione/interconnessione, teoria/pratica e a sfumare i confini fra discipline scientifiche e umanistiche cambiando le capacità della letteratura stessa.

Questo complesso discorso implica riconoscere i limiti della cultura occidentale post-industriale e superarli, andando perfino oltre l’idea kantiana che la realtà coincide con ciò che l’essere umano percepisce – dato che il cambiamento climatico è qualcosa di non percepito se non attraverso strumenti di misurazione artificiali. Un altro studioso, Timothy Clark, ha perciò suggerito che: “La principale implicazione artistica quando si cerca di rappresentare l’Antropocene dev’essere il profondo sospetto di ogni estetica realista tradizionale”. In questo senso, lavora ad esempio David Mitchell in Le ore invisibili (che forse sarebbe stato meglio intitolare Le ossa a scadenza dato che il titolo The Bone Clocks allude alla condizione umana). Il volume, che racchiude sei storie, parla dell’eterna lotta fra il bene e il male dove il male è rappresentato dal peggior tipo di consumatori: i consumatori di anime. Facendo leva su leggende antiche come quella della setta segreta di immortali che si nutrono di sangue di bambini (interessante notare come la stessa leggenda sia finita poi in Qanon, la teoria del complotto di estrema destra sviluppata negli States), schierandosi apertamente con la controparte sostenibile e cioè una confraternita di immortali quasi buddisti che non hanno bisogno di consumare nessuno per reincarnarsi, Mitchell ci porta nell’ultimo dei sei racconti, a una visione di futuro piuttosto realistica. La protagonista, oramai anziana e malata, avrà sconfitto i cattivi ma la mentalità consumista dei cattivi è di fatto quella che permea la società occidentale e gli effetti devastanti del cambiamento climatico ne sono l’inevitabile effetto.

La prima cli-fi effettiva è datata 1977, si tratta di Heat di Arthur Herzog, giornalista e scrittore di genere specializzato in fantascienza e crime. All’epoca di Heat, il cambiamento climatico era problema fra i problemi, solo una ventina di anni dopo ha iniziato a essere il problema, trascinatore degli altri. L’importanza di questo romanzo e, in generale, gli spunti interessanti provenienti dalla letteratura di genere hanno fatto riflettere sul rivedere la dicotomia letteratura/letteratura di genere, già in parte riabilitata dal post-modernismo. Vedremo come questa dicotomia è particolarmente difficile da scardinare in contesti culturali come quello italiano nel quale alcuni generi più realisti, come il giallo, hanno avuto la loro riabilitazione post-moderna ma ancora si fatica a considerare la fantascienza portatrice di peso specifico filosofico-letterario.

Ultimo, ma non meno importante: la cli-fi ha un parente stretto in poesia. L’ecopoetry, come genere consapevole dell’attuale disastro ecologico, nasce in contemporanea alla cli-fi, ma ancora una volta gli antenati sono antichi, includendo nature poets come John Clare (1793- 1864) e grandi autori anticipatori di certe tematiche ecologiche come Andrea Zanzotto (1921 – 2011).

Libro consigliato: Kerry Emmanuel, Piccola lezione sul clima, Il Mulino (Bologna, 2008). Un testo di poche pagine, pensato per parlare a tutti.

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