Come ve lo immaginate uno scienziato? Col camice a fare esperimenti, oppure chino sui libri? Certamente non sui social a sfogare le ansie dovute al suo lavoro. Eppure è proprio quello che ha fatto il metereologo Eric Holthaus quando ha twittato “come posso fare il mio lavoro, letteralmente testimoniare un suicidio planetario, quando sono io stesso vittima di una disperazione esistenziale?”.

Come lui, a causa dei loro studi sul clima, sempre più scienziati soffrono di disturbi che vanno dalla sindrome post-traumatica da stress alla depressione, e questi effetti si fanno sentire con sempre maggiore forza su tutta la popolazione. Non stupisce che la reazione della maggior parte delle persone sia quella di cercare qualunque scusa per non pensarci.

Eppure l’ansia ha una funzione specifica ed utile: quella di prepararci al pericolo imminente ed evitarlo. Proprio come quando si sfila un sassolino dalla scarpa, per alleviare il disagio provocato dall’ansia si mettono automaticamente in atto delle strategie adattative che ci permettono di risolvere il problema e proseguire sicuri lungo la nostra strada. O almeno così speriamo. Se per qualche motivo non si riesce a fare qualcosa di concreto è molto probabile che, pur di stare bene, ci si convinca che tutto vada bene; un po’ come quando per dormire ancora un po’ si spegne la sveglia.

Rifiutarsi di accettare la crisi climatica è molto facile, perché altrimenti vorrebbe dire accettare, da una parte, un pericolo potenzialemente letale, e, dall’altra, la necessità di modificare radicalmente gli stili di vita individuali e delle proprie comunità. Purtroppo, secondo uno studio della psicanalista Sally Weintrobe, le ansie e le paure rimaste sepolte producono dei conflitti interiori che finiscono per alimentarle ulteriormente, in un circolo vizioso che spinge, come soluzione, ad ignorare il problema.

D’altra parte, se anche ci si decidesse ad affrontare queste emozioni, dovremmo comunque fare i conti con la parte pratica. Tanto più un problema è complesso, tanto più può essere difficile trovare delle strategie adatte, e la crisi climatica è uno dei problemi più complessi che l’umanità abbia mai affrontato. Uno dei motivi per cui è così difficile da risolvere è che le sue cause, e le strategie risolutive, esulano dalla dimensione individuale e sono strettamente interconnesse a quella collettiva. Non basta che io faccia la raccolta differenziata, non basta che uno stato bandisca i combustibili fossili. Per questo la dimensione sociale dell’ansia da crisi ecologica, o ecoansia, è estremamente importante, e influenza il modo in cui viene percepita e vissuta.

In particolare una ricerca della sociologa Kar Mari Norgaard evidenzia come una caratteristica innata della socialità umana contribuisca a creare attorno alla crisi ecologica un silenzio collettivo. Ognuno ha bisogno di ricevere consenso e approvazione, e questo produce una forte pressione sociale ad omologarci a chi abbiamo vicino. Questa spinta, unita alle dissonanze causate dalle contraddizioni della nostra società, dalla comunicazione alle politiche, crea una tale confusione da spingere le persone a fare finta di nulla pur di placare l’ansia generata.

Per fortuna gli stessi meccanismi sociali che sembrano condannarci all’estinzione possono essere sfruttati per innescare un circolo virtuoso che in breve tempo ci permetta di trasformare radicalmente la situazione. Rompere il circolo vizioso di ansia, rifiuto e silenzio può aiutare noi ad essere più sereni e spingere gli altri ad attivarsi e, se questo sforzo può sembrare una goccia nell’oceano di fronte all’enormità della crisi climatica, ricordiamoci che pochi ma buoni potrebbe essere abbastanza. Diversi studi infatti, da quelli storiografici della politologa Erica Chenoweth modelli matematici simulati al computer, suggeriscono che basti la spinta iniziale di una percentuale di individui compresa tra il 3,5 e il 10 per cento per innescare un cambiamento in tutta la popolazione.

Per approfondire alcuni ed altri di questi temi potete leggere (ma non comprare online!) “Una rivoluzione ci salverà” di Naomi Klein, in cui si illustra come il rifiuto di accettare la crisi climatica ha portato i conservatori americani a fare propaganda negazionista, e si esplora come la nostra società possa intraprendere azioni adattative concrete per conservare il pianeta come ci piace: abitabile.

Andrea Drago per conto di Valeria Belardelli

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