“Continental Divide”, il matrimonio fra metropoli e montagna
Un insolito Belushi nella pellicola "Continental Divide" ci consente di rivalutare ed apprezzare la vita fuori dalle città.
Un insolito Belushi nella pellicola "Continental Divide" ci consente di rivalutare ed apprezzare la vita fuori dalle città.
“Bello questo film”, mi sono detta dopo aver recuperato il film Continental Divide (che in italiano è stato trasformato in Chiamami aquila), “il libro dev’essere bellissimo”.
Figuratevi la mia sorpresa quando ho scoperto che non c’era nessun libro.
No, la sceneggiatura di questa commedia decisamente da recuperare – con John Belushi in un inedito ruolo romantico e Blair Brown – è originale, firmata Lawrence Kasdan. Un nome che gli appassionati di Star Wars di certo conosceranno e che in quello stesso anno – il 1981 – aveva nei cinema anche I predatori dell’Arca perduta.
Continental Divide non è una cli-fi, ma il tema dello scontro/incontro fra il modo di vivere fortemente antropizzato della metropoli e quello a stretto contatto con la natura della montagna è centrale ed è evidente a livello visivo, a partire dal casting.
Belushi, con il suo fisico grassoccio decisamente poco adatto al trekking, è Ernie Souchak un giornalista impegnato a smascherare magagne politiche, legato – come l’attore che lo interpreta – da profondo amore per la sua città, Chicago. Blair Brown è Nell Porter, un’energica ornitologa, giovane, in forma e battagliera che ha dedicato la sua vita allo studio delle aquile.
Quando Souchak viene allontanato da Chicago perché corre dei rischi a causa dei suoi articoli polemici contro un potente locale, il direttore del suo giornale lo invia in cima a una vetta della catena montuosa del Continental Divide a scrivere un pezzo sull’ornitologa Nell Porter. E lì inizia il bello.
Il personaggio di Belushi parte prevenuto sia nei confronti della studiosa che della vita spartana che conduce. Pur restando profondamente cittadino, piano piano riacquista capacità perdute (come quella di costruire oggetti con il legno). Impara poi a osservare gli uccelli, a fronteggiare i predatori e ammira il coraggio di Nell (e qua c’è una scena epica in cui lei, infuriata, distrugge i fucili ai cacciatori di frodo). Ovviamente Souchak e Nell si innamorano ma altrettanto ovviamente la vita di lui è a Chicago, quella di lei è sui monti.
Le due cose che mi hanno colpito – e per cui ho quasi sentito la mancanza dell’approfondimento che può dare un libro, nonostante la sceneggiatura sia solidissima e il film gradevolissimo – sono queste: la bald eagle, che il personaggio di Blair Brown studia, è la classica aquila simbolo degli Stati Uniti.
Solo verso la fine del film, si accenna agli effetti nefasti dei pesticidi (DDT in primis) su una specie un tempo molto presente in certe parti montuose del paese. Quella della bald eagle in realtà è una storia di scampata estinzione: in effetti, attorno alla data del film, il Governo Federale Statunitense l’aveva definita endangered, in pericolo.
Oggi è specie protetta, ma non è più considerata a rischio. Nell, l’ornitologa interpretata da Blair Brown, rappresenta tuttə coloro che, con passione, hanno aiutato a capire come fare a salvare la bald eagle e quali erano (e sono) gli interventi antropogenici sull’ambiente che la mettono in pericolo. Il mestiere, per Nell, viene necessariamente assieme a uno stile di vita (considerato folle dai più) che la studiosa ama talmente tanto da non riuscire a trasferirsi a Chicago neanche per amore.
Non è un tema che si trova spesso nelle romantic comedy degli anni Ottanta, di solito così urbano-centriche, e il tempo che a esso viene dedicato è giusto, considerato il genere. In un libro ci sarebbe stato da andare a fondo.
Un altro che cambia vita, nel film, è la star del rugby Max che, non sopportando più la pressione, scappa a vivere primitivamente sul Continental Divide e instaura una relazione con Nell. Sono figure che nell’immaginario statunitense c’erano già, mentre nel resto del mondo la pressione, l’ansia, il burnout e il ritorno ad ambienti meno antropizzati è oggi un tema caldo.
Nella classifica Sleepjunkie del 2018, Chicago è dodicesima nella lista delle città dove il burnout è più frequente, la prima delle città europee è – poco sorprendentemente – Londra (14). Roma, la prima delle italiane, è al numero 21.
L’altra cosa interessante invece di Continental Divide è l’impatto del personaggio di Belushi, Souchak, con il mondo della montagna. Ora, parliamo di un attore che del far capire i pensieri di un personaggio attraverso le espressioni del volto era un maestro, tuttavia probabilmente oggi c’è talmente tanto bisogno di narrazioni di questo genere che l’introspezione e il tempo di un libro per descrivere il cambio di atteggiamento di questo personaggio – che comunque sa che il suo habitat è altrove – un po’ mi è mancato. Ci vorrebbe un libro alla Solar, dove il protagonista però è decisamente più simpatico.
C’è comunque qualcosa di rivoluzionario (e questa parola va rapportata agli anni Ottanta e a Hollywood) nel fatto che il personaggio di Belushi, con tutti i suoi limiti, ammira e non rifiuta la scelta di Nell e, tramite questa ammirazione (che poi diventa amore), instaura il suo personale rapporto con un ambiente scarsamente antropizzato come l’alta montagna.
Quando cerca maldestramente di far adattare Nell alla città, indica i piccioni e dice: “Guarda, aquile!”. Fa ridere, ma in quella battuta c’è tutto il suo mondo interiore diviso dall’incontro con l’Altro, inteso come luogo. Diviso fino a prendere la decisione di impostare la propria storia d’amore in maniera simile a come si accoppiano le aquile.
L’alta montagna, così importante e così a rischio. Anche l’ambientazione di questo film sembra parlare più all’oggi che al 1981, quand’è uscito.
Forse semplicemente sono io che ho bisogno di questo tipo di narrazioni e non ne ho mai abbastanza. Forse mi rivedo un po’ in Belushi/Souchak diviso fra il legame costruito negli anni con il proprio habitat e il bisogno di rapportarsi, imparare le regole e amarne a un altro. Tuttavia, non credo di essere sola.
Date un’occhiata a questi dati di Coldiretti: dubito che quella del ritorno alla terra sia una tendenza legata solamente alla ricerca di lavoro. La ricerca è anche di un modo di vivere altro. Del resto, noi Millennials e Generazione Z, come scriveva anche Francesca Vergerio, ci siamo trovati spesso a corteggiare la Yolo Economy: “avere il coraggio di dire sì a ciò che consideriamo importante, accettando qualche rischio, senza pretendere che le nostre scelte debbano essere replicate da chi ci sta attorno senza un minimo di razionalità”.
Così fanno Nell e Souchak.