In un mondo che sforna serie tv, quella del regista hollywoodiano premio Oscar rimane inosservata nonostante sia geniale. Crisi in sei scene di Woody Allen, criticata perché considerata più un film lungo spezzettato in sei scene di vita piuttosto che episodi da serie tv a se stanti, è l’emblema della metanarrazione del mondo produttivo che si ibrida tra tv, serie, cinema e vite private.

E’ una crisi che si presenta dal titolo autorappresentativo. E’ una crisi personale e autoriale. Woody Allen, come sempre, con la sua arguzia umoristica ci gioca su, ma fino ad un certo punto, non si scherza con i soldi: ha accettato solo perché Amazon Prime gli ha proposto un budget indecente da non poter rifiutare.

Il colossal fa leva sul suo nome, depersonalizzato in un marchio, Woody Allen allora si umanizza ancora di più nella sua serie in cui ha carta bianca, una cerbottana in faccia a Netflix. Ha totale libertà creativa, anche se dovesse uscire un fallimento catastrofico, come la definisce il regista al Cannes Film Festival.

Cosa fa allora? Con in mano 15 milioni di dollari e un genere che non ha mai fatto prima? 

Non una cosa così nuova per lui, riproduce se stesso nei panni di un uomo, ma con un altro nome: Sidney. La novità è che si ritrova a dover fare una sitcom per la prima volta, ma non c’è nulla di più realistico di una sitcom. Mentre guadagna facendo pubblicità ridicole, aspirante scrittore di successo fallito nel diventare il nuovo Salinger da quando la letteratura è passata di moda, capisce che si deve adattare, perché se non sfondi è meglio che lasci perdere, e così inizia a toccare altri generi.

Nella prima (s) puntata va dal barbiere per dare un nuovo taglio alla sua forma creativa, vuole assomigliare a James Dean, ma più che apparire un divo Hollywoodiano quale era, Woody Allen – in sella alla sua autoreferenzialità – torna a casa dalla moglie sperando si accorga del nuovo taglio di capelli, ma nulla sembra essere cambiato, tra le righe, dal suo cinema.

«A chi assomiglio?» chiede lui e Key, la moglie, risponde: «a Franking Pongborn, un attorucolo che fa solo ruoli minori», un attore comico, un po’ mediocre, che non ha mai fatto capolavori.

La metafora non può essere visibile agli occhi di Sidney su quella testa sfoltita. Chi è Sidney, chi è Woody Allen? Nel destreggiarsi nel tempo e nello spazio a piacimento, sceglie di mettersi nel bel mezzo degli anni ’60, negli Stati Uniti, in piena guerra in Vietnam, non a caso una guerra ventennale completamente senza senso sparata sui tg. E sceglie di sfondare la quarta parete di ogni casa borghese che non può fare nulla se non guardare, e così fa la stessa cosa la serie di una prestige tv per chi ha un abbonamento prime, e ora guarda se stesso, il pubblico è protagonista e cliente di una sitcom, perché ogni famiglia è una sitcom e ogni sitcom parla di famiglie.

Cosa è successo? chiede Sidney. Ed ecco l’equivoco dell’informazione. La moglie lo aggiorna delle ultime notizie di attualità, chi è di buona famiglia deve sapere quello che succede, anche se rimane confinato nelle sue mura, ma cosa è successo in casa intendeva Sidney. L’unica cosa importante è che hanno aggiustato la tv, il modo per stare nel mondo. 

Accomodati borghesi americani, intellettuali acculturati grazie ai club del libro, studiano Marx, complici inermi di una guerra. La loro tranquillità viene contaminata da Lennie, una giovane comunista rivoluzionaria hippie che cerca rifugio da loro. Come copertura fa la finta figlia adottiva, lasciando intravedere un riferimento anche reale alla vita di Woody Allen regista, il quale aveva una figlia adottiva coreana, Dylan, prima che se la sposasse.

Ma Sidney si preoccupa solo per la sua incolumità minacciata. La domanda che ci pone Lennie è: sporcarsi le mani per combattere l’ingiustizia o sporcarsi la fedina penale della giustizia? Dove ci porta la nostra morale personale? Il dilemma di ogni rivoluzione è la contraddizione tra un pacifismo borghese e una violenza repressa ribelle, chi ha quale ruolo?

Lennie, la paladina dei deboli, a occhio nudo, è la pop star Miley Cyrus, icona dell’intrattenimento, la cara Hanna Montana dell’infanzia Sky anni ’2000, diventata poi una delle cantanti più di successo, insomma, un bel prodotto del capitalismo, ma di certo non ha colpe. Lennie ha chiara la sua causa, cambiare il mondo che «mentre la gente muore di fame cazzeggia su cialde e cioccolatiere”. 

Un paradosso che si riflette anche su di noi illuminando le nostre quinte di spettatori che decostruiscono; vederlo è quasi disturbante, si sente anche un po’ di senso di colpa. Utilizzare il mezzo per la critica: sembra che il regista lo abbia fatto apposta per smascherare la sua stessa ipocrisia. Ma questo è il cinema, è un lavoro, e l’ironia serve a rappresentarci, il cinismo a prenderci in giro senza fare la morale, ma trovandola da sè. Quindi sfruttate Amazon Prime e trovatela.

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