Si gioca col fuoco quando si balla sui carrarmati.

Il bacino carbonifero del Donec si muove insieme ai bacini dei militari su TikTok, sotto colonne sonore dai Nirvana ad Adele o altre hit pop. E non c’è nulla di più pop di una guerra che ha bisogno di fare leva obbligatoria sulla massa mediatica, che guarda lo spettacolo. 

Sono autori eredi di una Calvalcata delle Valchirie vietnamita che copre il rimbombo della nostra Apocalypse now, ovvero la guerra in Ucraina.  

Il film di Coppola sembra aver previsto il potere spettacolarizzato che ha la realtà tragica. Diventa ironica quando ha un “atteggiamento di lucido distacco” (dizionario la repubblica), sebbene sia nel vivo di un orrore. 

Quando si è in ballo, allora non resta che ballare davvero: shall we dance?” dice un soldato dall’elicottero mentre alza il volume delle casse per non sentire più il resto, assordante. 

E’ l’effetto anestetico appena prima dell’abbuffata bulimica della violenza.

E’ così che la guerra ucraino-russa viene ingerita da noi come un prodotto da fast food, veloce nella catena alimentare alienata di visualizzazioni, pronto in pochi secondi su TikTok, con danze in live dai bunker o da nascondigli di soldati.

Ma come giudicare ragazzi tiktoker-soldati? I nomi sono vari: alexhook2303, maverikkk78, iamhappycomeback, sono ragazzi che sbandierano ashtag come “i am not scared” per dimostrare che non hanno paura, che lo fanno per la patria, che sono forti o per comunicarci chissà cos’altro.

Ma a differenza dei vecchi guerrieri attaccati con le lettere ai propri cari lontani, che chissà cosa facevano, ora il pubblico li vede all’istante, riempie quelle trincee, dà loro la forza di avanzare con il tifo virtuale di commenti e cuori d’artificio, che li fa sentire vicini alle loro camere, ora distrutte. 

Per una generazione che sopravvive con ricariche telefoniche, quando e come caricheranno quei telefoni mentre stanno combattendo? Il modo lo si trova.

Sembra che l’esigenza di visibilità abbia superato l’istinto di sopravvivenza, ma è pur sempre istinto quello che li spinge a distrarsi, a smorzare il dolore e a denunciarlo mentre si tenta di sopravvivere facendo danze, balletti o scherzi ai compagni e pubblicandoli sui social?

Serviti su un piatto d’argento arrivano i giudizi. A pelle sembra raccapricciante, un riflesso di come si affrontano i disastri in pasto ad un’epoca frivola, deformata nella bacheca TikTok che frulla nella miscela dell’algoritmo per te di una ricetta vegana, video stupidi, modelle vanesie e un bombardamento improvvisato da una telecamera interna di un ragazzo sugli ultimi probabili tic tac del suo tempo. E tutto finisce per avere un po’ lo stesso effetto. 

Un piatto riscaldato ad imboccare l’empatia spicciola del pubblico millennials? Appiattito dallo scrollo in un briciolo di spavento per il crollo di un edificio sbriciolato sulle teste di quei soldati, coetanei.

Ma che giudizio dare? Ci fa bene guardare, fa bene loro mostrare in ogni modo, anche se non si capisce se sia frutto di umorismo consapevole o semplice febbre da adattamento social, perché di certo non è solo un mezzo di informazione più funzionale, ma è coreografico e quasi sempre un sottofondo musicale.

“L’umorismo non ha affatto bisogno d’un fondo etico” diceva Pirandello, sono d’accordo, ma allora che effetto ci devono fare i loro video?

Anche loro utilizzano quei mezzi, sono ragazzi come noi solo che temporaneamente dentro uniformi militari, soldate truccate a esibire il fucile, che possono perlomeno godere di un ritorno dal pubblico di quel fascino dell’uniforme su TikTok che le costringe ad uscire fuori dall’uniformità e di fare di quel mezzo un’evasione e un riconoscimento.

Per uscire dalla mimetizzazione asociale di quelle divise nei campi desolati della guerra, non si distinguono, e con disarmante tranquillità, sembra guidino la loro macchina, non un carro armato.

Ma lo pseudo divertimento spremuto in respiri di libertà, non è un effetto di una rielaborazione traumatica o satirica a posteriori, ma è in medias res nei medias, durante bombardamenti, un ordigno esplosivo che dà loro la carica, un modo per sdrammatizzare e trovare feedback emotivo immediato, perchè viviamo di questo, anche in circostanze estreme come la guerra.

Stride un’etica di rappresentazione con nuovi filtri di questo tipo? E’ lecito fin quando è reale e fin quando la realtà può essere presa in giro, nel senso di essere aggirata per qualche momento, solo dai suoi protagonisti. 

E’ un grido liberatorio a vivere senza soccombere all’aderenza funeraria che prescrive il rito di guerra per come ce lo immaginiamo.

Le danze apotropaiche su TikTok scacciano via la minaccia di morte come un teschio zuccherato dato ai bambini ai funerali messicani: più è vicina più è troppo giovane per prenderla seriamente.

Non è finzione cinematografica come in Apocalypse Now, è un documentario catartico.

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