Le ho viste in fotografia, le vecchiaie felici, e mi hanno fatto una grande impressione: avevano faccie macchiate e serene, pelli incise dall’alfabeto del tempo, e tuttavia luminose, non mi hanno certo fatto pensare alla fine.

Sono nate e vivono tuttora in quello che viene chiamato old people village, piccola patria delle longevità femminili, nella provincia di Okinawa, Giappone, hanno novantasette anni, novantanove, centodue eppure guardano avanti. Che cosa vedono, lo posso immaginare. Vedono i giorni sempre più corti di cui ancora possono godere, e non ne hanno paura. Non hanno più paura. Nè della morte nè della vita. Si trovano, cioè, in uno stato ideale. Attingono all’atarassia, che raffredda le passioni e introduce alla pace. Le guardo, e cerco di immaginarmi me stessa. Noi.

Noi donne occidentali, costrette per tutta la vita a misurarci con un modello di charme bloccato alla giovinezza, condizionate a fingere, a ritoccare lineamenti, stirare rughe, combattere con il contorno degli occhi. Penso a noi donne libere ed emancipate, costrette a sentirci inadeguate per almeno cinquanta degli ottantasei anni che costituiscono la durata media della nostra permanenza su questa terra (e  ogni anno ci viene conquistato qualche mese in più). Penso che sì, noi, donne italiane, ci arriveremo senza sforzo alla soglia della decrepitudine.

L’Italia è subito dietro al Giappone, per aspettativa di vita. Arriveremo, certamente, a compiere il giro del secolo. La maggior parte di voi, riscrittori e riscrittrici delle regole, voi che siete certamente un bel po’ più giovani di me, toccherete, probabilmente, quello che oggi è il record: centoventitre candeline sulla torta (compleanno al Quirinale?). Il problema è: come sarete, come saremo, tutte noi, a novantasette anni? Molto probabilmente ancora vive, certo.

Ma come ci sentiremo? Come ci si sente quando sono settantaquattro anni che non ne hai più ventitré? Delle fallite? Delle reiette? Degli scarti sociali? Vivremo nascoste in case di riposo sovraffollate come tetri condomini di periferia? Oppure sole sole, nell’appartamento diventato troppo grande, costrette a pagare per un po’ di compagnia? Saremo un’armata di vedove e separate, che non trovano la forza, l’allegria, l’energia per uscire tutte insieme e ridere senza motivo come a vent’anni?

Dalle bellissime vecchie di Okinawa avremo imparato a mangiare: riso bianco, alghe, pesce crudo, soya (io, da vent’anni, la assumo in pillole mattino e sera). Avremo ridotto l’apporto quotidiano di calorie (allunga la vita, l’hanno misurato sulle cavie). Da tutte le fonti autorizzate a commerciare in pensiero positivo, avremo imparato che essere sedentarie è un lusso riservato alle adolescenti, perciò cammineremo: diecimila passi al giorno, di buona lena, senza chiacchierare, con la App dello smart phone che ti calcola il ritmo e la velocità a chilometro.

Le più fanatiche, le più atletiche, quelle che si sono preparate per tempo e hanno incominciato intorno ai trent’anni (io), correranno i loro 50 minuti, che piova o tiri vento, mercoledì, venerdì e domenica. Saremo perciò delle novantenni sottili e toniche, con le borse sotto gli occhi, ma non sotto i glutei.

Ma lo sguardo, il nostro sguardo, lo sguardo che poseremo sul mondo, come sarà? Non mi faccio illusioni, o facciamo qualcosa o sarà uno sguardo spento e perso, distratto, atono, vuoto. Care quarantenni meravigliose, preparatevi per tempo a sentirvi libere di essere come siete, liberate la mente dall’ ageismo inconscio, introiettato senza saperlo, che vi porterà a vecchiaie infelici. Nei limiti del possibile, ogni mese, cercherò di aiutarvi.

Intanto leggete, se vi va: L’economia del sè, di Guia Soncini, una riflessione sulla fiera della vanità dei nuovi esibizionismi. E al cinema andate a vedere, assolutamente, The Triangle of sadness di Ruben Östlund. Comico, grottesco, disperato e commovente. Un film sulla lotta di classe. Illustre assente da qualche decennio.

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