«I wish I was special. You’re so fucking special. But I’m a creep, I’m a weirdo. What the hell am I doing here? I don’t belong here…» Questi sono i Radiohead, certo. Queste invece no. C’è una ragazza che suona la chitarra. Strimpella incerta, poi prende sicurezza. Ce n’è un’altra che in questa precisa scena resta offscreen. Sappiamo che c’è perché canta: la sua voce accompagna sottile gli strimpelli della prima, sembra parli a lei e a noi insieme. Sembra si confessi. 

Ogni tanto la ragazza che suona gira chiavette e pizzica corde a vuoto. Ha le mani ossute, le dita lunghe e forti. Impareremo ad amarle — le dita di Ellie, falange-per-falange; la voce di Dina, incrinata o meno — fermandoci appena un attimo prima o un attimo dopo di trasformare il tutto in un’improbabile crush post-adolescenziale. «I want an entire DLC of this», cioè un’espansione dedicata, scrive chi commenta su YouTube la scena che è solo l’easter egg di un videogioco. La chiamano già «The Last of Us Part II: Guitar Hero Version»: scherza sulla propria ossessione, la community, ma non del tutto. 

Un mix tra racconto cinematografico e interactive storytelling design

Ne abbiamo parlato già più volte, e al tempo stesso — mi pare — mai abbastanza: TLOU Part II non è un videogioco post-apocalittico qualunque. È il più premiato della storia videoludica, ed è un ultravideogioco, come scrivevamo nel ReWriters Mag di marzo: «un prodotto crossmediale non perché raccontato su più media, ma perché all’incrocio benedetto tra racconto cinematografico e interactive storytelling design. Tra letteratura ergodica e drammaturgia epico-tragica”. Per usare l’ennesimo tecnicismo, insomma, un prodotto ludico ma anche tematicamente carico a pallettoni, deciso a prendere progresso e civiltà e ficcarli a palate in gola al gamer alt-right stereotipato senza apparire dichiaratamente (e fastidiosamente) militante — se non dopo, a ripensarci».

Non di spoiler ma di premessa si tratta: e si scontra, qui da noi, con un paio di precise problematiche, che possiamo capire a partire da questa definizione:

“Inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassa; attenzione a tutto quanto è televisivamente popolare e popolarmente televisivo; suggestioni perlopiù antiretoriche, non di rado articolate attraverso disseminazioni di dubbi su mitologie consolidate; apparente leggerezza; allegra e spavalda disponibilità al gossip (vulgo: “pettegolezzo”), quindi al divertente, all’eclettico, al frammentario; visione conflittuale della realtà, con conseguente sottolineatura di ‘casi’, ‘polemiche’, ‘duelli’ e, quando possibile, spargimento di polpettine di zizzania destinate soprattutto a uomini politici e intellettuali che si prendono troppo sul serio; culto del dettaglio, ancora, talvolta tirato fino all’estremo limite, e cioè ben oltre la vicenda in cui esso dettaglio s’inscriverebbe”. 

Fonte: qui.

La definizione è attribuita al giornalista e scrittore Filippo Ceccarelli: a esser definito, invece, è l’approccio di metodo riferito a Paolo Mieli, capace di cavalcare la Storia italiana con piglio incline all’evoluzione, o involuzione che sia — da rivoluzionario a moderatissimo, per intenderci. Cosa c’entra coi videogiochi?

Qualche tempo fa, era il 13 di luglio, a 24 Mattino — trasmissione di Radio 24 egregiamente condotta da Simone Spetia — Mieli chiude il suo contributo annunciando a Spetia un nuovo contenuto per la puntata dell’indomani. Quel che dice è testualmente quanto segue (14.50 – 15.28): 

Parlerò di questa Playstation fantastica, che ha introdotto una serie di giochi LGBTQ… più, plus, va bene, che si chiama, eh, Noti Dog (sic), che ci sono delle giovanissime quattordicenni lesbiche che instaurano un gioco con un trans e sono rimasto veramente perplesso. Ne parlo domani, forse dedico l’intera puntata a questa vicenda“.

Spetia raccoglie la dichiarazione di Mieli e ride, non si capisce se con lui o di lui. L’indomani, 14 luglio, nessun riferimento di Mieli a The Last of Us di Naughty Dog andrà in onda; né Mieli, peraltro, comparirà in trasmissione. Resta solo quest’annuncio preventivo a infestare la rete a imperitura memoria. Come insegna Bo Burnham, nulla si dimentica nel sempiterno mausoleo di endless content che ci collega, nevrotizza, appassiona. L’internet, ovvio.

Competenza e deontologia

Ci sono considerazioni da trarre a partire dalla sequenza citata — effettivamente minima in sé, visto e considerato che nulla di tutto ciò è poi effettivamente colato in trasmissione, il giorno dopo? Forse sì. Possiamo provare a interrogarci in merito a due questioni primarie, difficili da scindere: competenza e deontologia. 

Mieli, classe 1949, difficilmente avrà giocato entrambi i titoli del franchise o le eventuali espansioni; è assai improbabile che l’abbia poi fatto più di una volta, per valutare appieno l’effettivo sostrato moral-decisionale che ne permea i bivi di narrazione. Eppure. Decidere di raccontare in questo modo, a scherno trattenuto, temi e narrazioni encomiabili per sforzo e resa, e farlo in spregio a qualsiasi effettiva documentazione in merito, stona particolarmente se a farsene carico è appunto un simile titano dell’informazione nostrana, storico oltre che giornalista e autore. 

Cosa possiamo auspicare? Che anche nel gaming si cristallizzi una ferrea regolamentazione volta a tutelare la percezione delle aziende, la brand awareness dunque, contro utilizzi discriminatori dei mezzi d’informazione? Se parliamo di opinioni personali, purtroppo o per fortuna, in merito ai prodotti d’intrattenimento e alla loro percezione soggettiva non c’è gran margine d’azione. Sarebbe reale censura d’opinione, conquista ben poco auspicabile per chiunque mantenga una qualche forma d’onestà intellettuale. La protezione contro la contraffazione o la diffusione di false informazioni configura poi tutt’altre fattispecie. 

Se ci concentriamo sulle fake news e sulla responsabilità giuridica da esse derivante, invece, dobbiamo considerare come il diritto all’informazione non goda ancora di un esplicito riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano. Qui scovo uno splendido approfondimento, aggiornato a fine giugno ’21, in merito all’effettiva disciplina legale del fenomeno: manca un orientamento giurisprudenziale consolidato in merito, è vero, ma di danno da falsa informazione si tratta.

Ci piacerebbe pensare che, in osservanza al Testo Unico dei doveri del giornalista, a prescindere da qualunque controversia legale ciascun professionista del settore debba attenersi a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, in special modo quando si occupa di faccende legate alle discriminazioni di genere: e parlare di “giovanissime quattordicenni lesbiche che instaurano un gioco con un trans” (sic) a proposito di un titolo ultrapremiato che tanto ha fatto proprio in termini di scardinamento del pregiudizio e rimozione dello stigma — farlo con tanto malcelato sarcasmo, poi — muove da una tal serie di inaccuratezze fattuali che è capace di rappresentare in modo palesemente distorto la trama del titolo in questione (basta un giro qui, eh: nulla di più semplice). 

Se invece consideriamo quella di Mieli un’osservazione critica alla trama in questione, un’opinione appunto, resta profondamente inaccurata: le protagoniste hanno tutt’altra età e relazione, e sospettiamo che l’ex direttore de La Stampa e del Corriere e di RCS Libri sappia distinguere molto bene tra opinione e diffamazione. Delle due l’una, dunque: malafede o mancata verifica delle fonti? La boomerizzazione è un’opzione ulteriore? È questo il prezzo da pagare perché il mezzo videoludico ottenga l’attenzione che merita come veicolo di riscrittura degli immaginari?

Condividi: