Qualche giorno fa, in pieno hangover da vaccino, ho passato un finesettimana intero a dibattermi tra il Publisher Weekend di Paradox Interactive, sullo store di Steam, e le anticipazioni isteriche sul nuovo trailer rilasciato da EA (quello sul Game Pack Arredi da sogno); problemi da primo mondo, s’intende. Privilegio multiplo, bombette inclusive… incluse. 

Per esorcizzare il privilegio e scusarmene, preda di indicibili sensi di colpa, vorrei oggi cimentarmi in un doppio gamer-ritratto e lasciare parola a due creature professionali nonché genuinamente meritevoli d’attenzione: impresa difficile, vero, ma nobile se a essere immortalate sono figure di settore che attivamente s’adoperano per migliorarlo, il settore in cui agiscono. Retorica a parte.

Una è Stefania Sperandio, caporedattrice di SpazioGames che nei momenti rari in cui non gioca o recensisce o scrive (tantissimo!), suo malgrado si ritrova assurta al rango di attivista per l’inclusione e le questioni di genere. Quando, a gennaio ’21, decide di raccontare (qui: non per la prima volta, ma mai in modo così cristallino) la parte più problematica della propria esperienza nel gaming — «Nove anni fa, al mio primo vero articolo su SpazioGames, che fu una preview di Metal Gear Rising, il primo commento in assoluto fu “da quando fate recensire giochi a una femmina?”», e via così —, di fatto assurge a simbolo suo malgrado. «Per me la discrezione è fondamentale: in questo ruolo ancora non mi ritrovo», sorride quando poi ricostruisce l’accaduto. E questo riesce a farlo, eroina solo parzialmente lisergica, senza tralasciare l’aspetto pratico della situazione: ovvero come uscirne. 

Spoiler: uscirne non sarà facilissimo.

L’altro è Lorenzo Fantoni, direttore di N3rdcore: tra le pagine di Vivere mille vite (saggio pop uscito qualche mese fa per effequ) si racconta e ci racconta la “storia familiare dei videogiochi” citata nel sottotitolo con una mitologia universale. Relatable, in mancanza del perfetto calco: «[…] Pur facendo parte di quella generazione che romanticamente si rifà a un passato di bambini che giocano per strada col pallone (come se oggi non lo facessero) e di relazioni sociali più intense perché prive di smartphone», scrive, «la ‘natività digitale’ è passata dai videogiochi, le console, i controller, le cartucce, la normalità di un divertimento che non era più soltanto fisico, ma anche digitale, fatto di colori, oggetti su uno schermo che potevo controllare, e astrazioni.» Ma da quale prospettiva?

Vivere mille vite (qui).

Chiacchierare con entrambi delle trasformazioni di cui è oggetto il gaming, oggi, vuol dire trovarsi davanti a tutt’altro che gamer da stereotipo: per dirlo con Marina Pierri, che introduce proprio Vivere mille vite, nel caso di videogiocatori declinati dunque al maschile «un idealtipo di gentleman (nel suo significato letterale di uomo gentile), eroico nell’essere sé stesso tanto nei momenti in cui brilla per genialità, o pensiero divergente, così come nei momenti in cui ogni luce è fioca e le soluzioni stentano a essere trovate». Qui pare si parli di Guybrush Threepwood, antieroe di Monkey Island, ma un po’ pure di Fantoni stesso, che Pierri auspica faccia parte di quella «soluzione pratica all’annoso problema del patriarcato interiorizzato che, per tanti versi, continua a condizionare non solo la nostra società, ma le sue numerose espressioni simboliche. Tra cui i videogame». Impossibile darle torto: anche se sui piedistalli, chiaro, si sta scomodi e tira vento. Sperandio lo sa già benissimo. E anche Fantoni scende subito. Basta partire con le domande, e provare a mappare il cambiamento. Prima di tutto quello formale.

Via.

Cosa dobbiamo pensare di Stadia e della possibilità di avere a disposizione una sorta di Netflix del gaming che permetta di videogiocare su qualsiasi dispositivo? È davvero questa la fine delle console?

FANTONI: da una parte trovo che sia molto bella come possibilità di democratizzare il gioco. Non hai più bisogno di comprarti un computer con prestazioni e costi elevati per giocare al massimo — chiaro che serve una banda larga adeguata. Quello purtroppo non è un problema di Stadia ma delle infrastrutture statali, che ovviamente a volte non sono un granché; però l‘idea per cui, se voglio, posso giocare sul telefono, riprendere a giocare tramite computer o addirittura dal televisore senza alcun bisogno di supporti e così via, per me è una gran cosa. Ma sei comunque soggetto a una forma di controllo. Non possiedi niente, di fatto. Se un giorno qualcuno decide che quel gioco non deve più stare sulla piattaforma, non giochi più. Ed è una cosa che purtroppo a volte capita. 

Il Cloud si presta benissimo a una cosa che ultimamente sta diventando sempre più importante: la conservazione dei vecchi videogiochi. Se oggi io voglio, che so, leggere Dante o Anna Karenina, oppure vedere un film degli anni Venti, in qualche maniera riesco sempre a recuperarlo; col videogioco il recupero del passato è più complesso. A volte il gioco non gira, a volte non hai più la console adatta, e quindi per il momento la gran parte del retrogaming passa attraverso la pirateria pura e semplice. Perché le aziende spesso, per questioni di guadagno, fanno uscire solo ciò che produrrà un ritorno economico. Se qualcosa ha mero valore di conservazione ma scarso potenziale in termini di ritorno economico, spesso non viene riportata fuori e questo è sbagliato. 

Quindi da una parte il Cloud questo lo consente (abbiamo visto da poco l’XBox rimettere a disposizione i vecchi giochi); dall’altra, se un giorno qualcuno appunto dovesse decidere che per una qualche forma di accordo il tal gioco non va più distribuito, non ci giochi più. Coi vecchi supporti fisici non succede: nessuno può venire a casa tua a spezzarti il disco. 

SPERANDIO: in realtà è un approccio che sta portando avanti molto meglio Microsoft. Di Stadia ne parliamo ogni tanto su SpazioGames, ci dicono che siamo ipercritici: sta di fatto che quello che Google contava di fare con Stadia non è successo. Google contava di spaccare tutto. Ha presentato il modello e ha detto: “Ah, non vi serve più nessuna scatoletta a casa, giocate dappertutto, lo integriamo con YouTube, avrete giochi in esclusiva…” Il tempo ha dimostrato che han fatto un passo sensibilmente più lungo della gamba, al punto che da un paio di mesi sembrano proprio aver tirato i remi in barca sulla questione. Hanno chiuso alcuni studi interni, eccetera. Quindi la sensazione è che punteremo sempre di più a quel modello, sì, ma non con Stadia. 

Stadi di informazione su Stadia: da zero a GOMBLOTTO (via).

Google voleva farsi pioniera di questa cosa, ma ha fatto… una guglata — come quando, con Google Plus, aveva promesso di sostituire Facebook: poi Google Plus è sparito e Facebook sta sempre là. Stesso tipo di approccio. È diventato pure un meme: c’è letteralmente il cimitero di Google, con tutta la roba che hanno lanciato e poi ritirato. Oculatamente, con più calma, Microsoft ha chiarito le modalità con cui, tramite Game Pass, vuol portarti l’abbonamento: l’intero catalogo di videogiochi per cui tu paghi la quota fissa (alla Netflix, appunto) e accedi davvero a tutti i giochi. Non solo per XBox ma, almeno nelle intenzioni, anche per pc, smartphone, smart tv addirittura — qualsiasi dispositivo intelligente tu abbia — e questo senza pagare di più: su Stadia in alcuni casi avresti dovuto comunque comprare alcuni titoli al costo di listino, pur avendo l’accesso alla piattaforma. 

Un gaming scollegato dall’hardware, quindi, Game Pass: per cui qualsiasi dispositivo intelligente tu abbia a casa puoi farti l’abbonamento e scaricare i giochi senza aver neanche bisogno di chissà quale scheda grafica — tanto c’è il Cloud. Certo non ci arriveremo in uno o due anni. Le persone si abituano molto difficilmente. C’è ancora chi è molto scettico pure rispetto ai giochi comprati in digitale anziché in formato disco o cartuccia… però prima o poi arriveremo lì, la direzione è quella.

Google Cemetery
Essi (non) vivono.

Non mettiamo limiti alla distopia! Ma che idea dobbiamo farci invece a proposito del downgrade grafico degli ultimi giochi rispetto alle modalità di comunicazione degli stessi, pre-uscita? Si tratta di qualche episodio sporadico, oppure è una tendenza preoccupante? Cyberpunk 2077 ci insegna qualcosa?

SPERANDIO: Il caso di Cyberpunk è diventato proverbiale per diversi motivi e ha prestato il fianco a diversi problemi. Uno è: “Imparare a gestire le aspettative della nostra vita: come fare?”. È evidente che CD Projekt RED, forte della fama meritata, anche, per The Witcher III, sapeva che promettendo determinate cose avrebbe incontrato solo entusiasmo. Quindi quando hanno iniziato a parlare di un gioco di ruolo con tutte queste sfaccettature, con tutte queste possibilità, e l’hanno fatto dicendo, sempre, che sarebbe stato esattamente come lo stavano mostrando, ecco: solo dopo è venuto fuori che lo stavano mostrando su una GPU [Graphics Processing Unit], su PC e cose del genere. 

Le persone hanno avuto la tendenza a fidarsi, compresa la critica specializzata: io non mi stancherò mai di dire che non è inusuale che prima del lancio abbiano mandato un gioco solo su PC. Di solito prima del lancio i publisher mandano il gioco nella versione migliore – quella PC, nella maggior parte dei casi – e un po’ te lo aspetti che ci sia della differenza con la versione console. Certo non ti aspetti quel livello di differenza lì.

Quello, insomma, con la C maiuscola.

Essenzialmente, è uscito un altro gioco. Quindi sì, il problema della gestione delle aspettative è sicuramente diventato esemplificativo con il caso di Cyberpunk 2077. È anche un problema dovuto allo sviluppo in contemporanea su diverse piattaforme. A un certo punto lo volevano contemporaneamente su Stadia, su PC, su PlayStation 4, su XBox One, su PlayStation 5, su Series X e S — su qualsiasi piattaforma che non fosse Nintendo Switch. Perciò con un lavoro di ottimizzazione che, lo abbiamo visto, non è riuscito benissimo, si ottiene una versione ideale del gioco per PC che poi devi andare a schiacciare, a downgradare perché giri su tutte le altre piattaforme. Chi poi s’è portato a casa al gioco il 10 dicembre 2020, l’ha visto su PS4 e s’è detto: “Ma, scusa: quelli là ce l’avevano così nel trailer, perché a me gira cosà?” Occorre rendersi conto di tutto questo. Bisogna precisare che questo è il gioco in una certa versione, quello è in un’altra. Se si continuerà – e si continuerà ancora per un po’, secondo me – a portare avanti la crossgenerazionalità, è necessario sottolinearlo molto e disilludere la gente da subito. (Ah, un’altra cosa su Cyberpunk 2077. Molte persone che avevano già la PS5, hanno pensato che la versione PS4 fosse già ottimizzata per l’ultima generazione. Invece si trattava della  versione in retrocompatibilità con la PS4. Era meglio di quella base per PS4, ecco, ma comunque non era la versione PC!)

Quindi, certo: imparare a gestire le aspettative, sì. I publisher, creando hype, devono imparare a gestire il modo in cui generano la domanda, perché poi l’offerta porta i problemi che hanno avuto in questo caso. Problemi più di fama e reputazione che economici, comunque, eh. Gli investitori si sono inferociti, sono nate delle class action, eccetera… però può essere una lezione molto utile per tutti. E al di là della questione Covid: il fatto che stiamo assistendo a così tanti rinvii, quest’anno, probabilmente non è completamente slegata dal caso Cyberpunk 2077. Ognuno adesso vuole prendersi tutto il tempo che gli serve per fare uscire bene i giochi e dire con precisione su cosa sta girando ciò che si vede sul determinato trailer.

FANTONI: Cyberpunk 2077 è stato un caso limite, ma non è il primo: videogiochi annunciati, venduti o posti in un modo e, dopo l’acquisto, rivelatisi tutt’altro ci sono sempre stati. È che su Cyberpunk si è fondamentalmente concentrata una tempesta perfetta fatta di attese pompatissime, situazioni di sviluppo complicate appunto dal Covid e questioni economiche: al gioco avrebbe fatto bene un ennesimo rinvio, ma questo avrebbe comportato non pochi problemi a un’azienda quotata in Borsa come la CD Projekt RED… È già accaduto e tornerà ad accadere.

Il fatto in sé ci ricorda una cosa, però: fare un videogioco è una roba difficile, molto più difficile rispetto a, per dire, girare un film, scrivere un libro o mettere in piedi una pièce teatrale. Ci sono tantissimi fattori che spesso non puoi controllare: alle istanze creative si mescolano problemi tecnici spesso inattesi. E soprattutto, quando si parla di downgrade, non ci si rende conto che magari il gioco, durante una presentazione agli investitori, anni prima, con quella grafica funziona ancora perfettamente; e che magari solo dopo qualche tempo gli sviluppatori si rendono conto che c’è un bug e quindi devono in qualche maniera ridimensionare un po’ il tutto, grafica compresa. È chiaro che ci vorrebbe una comunicazione cristallina in merito. Qui, nel caso di Cyberpunk, è stato proprio sbagliato clamorosamente: tutto quello che poteva andare storto è andato storto. Però tutto questo ci ricorda che i giochi sono prodotti narrativi complicati. Si parte da determinate aspettative e un certo piano, e poi questo piano va a ramengo perché improvvisamente cambiano i motori grafici o ti rendi conto che c’è un problema tecnico per cui quella feature spettacolare che ti ha fatto vendere un sacco di copie in anteprima non la puoi più implementare facilmente perché è venuto fuori un bug che nessuno aveva previsto. O un numero di sviluppatori ridotto per enne ragioni. E così via.

Ripeto: è chiaro che questo è ancora un caso particolare, ma non è un caso unico. Posso però dire ai giocatori che, se pensano di non essere parte del problema, invece lo sono: basta non preordinare. Basta comportarsi in maniera meno esagitata quando c’è l’attesa di un gioco. Basta non minacciare di morte gli sviluppatori quando questo gioco loro lo rimandano. La maggior parte della colpa è del marketing, ovvio, che spinge questo genere di meccanismi: stiamo sempre a parlare di ciò che arriverà e mai di quello che è già uscito. Però anche il pubblico ha la sua colpa. 

Polarization, Kaitlin Mikrut.

Ecco. La polarizzazione è un fenomeno che sui social s’ingigantisce, ovviamente, ed è applicabile a qualsiasi contesto, mica solo il gaming. E d’accordo. Però c’è una forma di di tossicità… specifica del settore, ammettiamolo.

SPERANDIO: C’è un po’ la tendenza, perlomeno per quello che posso vedere io. E questa cosa dell’hype in attesa della specifica uscita purtroppo ci va a braccetto, in certe community. Ne ho avuto l’ennesima riprova da poco. In un post spiegavo perché a me fosse piaciuto TLOU II e un lettore ha commentato scrivendomi: «Ho capito, ma tu te l’eri immaginato così?». E io ci ho pensato e mi sono ritrovata a rispondere: “Guarda, io non me l’ero immaginato. Forse è una cosa triste, sarò cinica, ma l’unica cosa che avevo pensato era stata: “Arriva il sequel di The Last Of Us. Sarà un gioco con Joel ed Ellie, con i toni del primo capitolo, e poi lo fa Naughty Dog: mi aspetto una qualità alta.” Invece i giocatori, talmente tanto nel culto dell’hype, facevano il conto alla rovescia giorno per giorno. Per capirci, “Meno 25!”, e passata la mezzanotte: “Meno 24 al lancio!”, completamente assorbiti dalla passione. La passione è una cosa positiva… finché non ti fa arrivare una badilata in faccia, come accade in alcuni casi. Quando l’hype supera le aspettative realistiche per un determinato contenuto, quando community così tanto appassionate diventano sanguinose ci ritroviamo per le mani un altro curioso fenomeno recente, quello delle petizioni per modificare qualsiasi cosa: “Non è finito come volevo! Riscrivetelo! Raccogliamo le firme per dimostrare che faceva schifo!” Ma il fatto che tu, gamer, attendessi tanto un prodotto che magari poi non si rivela come te l’eri immaginato, non significa che quel prodotto non possa riflettere semplicemente la visione di chi lo ha realizzato. Questo concetto è ancora difficile da assorbire, nel gaming come in altre produzioni. L’abbiamo ampiamente visto accadere nella serialità televisiva (il caso del Trono di spade, per esempio), e lo trovo sempre paradossale.

Di Sonic, poi, è meglio non parlarne… O sì?

FANTONI: in questo momento i videogiochi, come gran parte della cultura pop moderna, sono un territorio di scontro fortissimo su parecchi argomenti diversi. Per anni determinate fasce della popolazione, che erano il pubblico privilegiato di alcune nicchie, in quelle nicchie magari ci hanno prosperato, vissuto, trovato uno spazio che magari non trovavano all’esterno: sono arrivate a rendere le nicchie parte di sé, a considerarle casa propria. Penso anche al gioco di ruolo, al gioco da tavolo… Il classico nerd si è ritrovato a farci la casa perché impossibilitato a trovarla altrove. Una questione identitaria: come tanto altro, i videogiochi sono fantastici per riempire determinati vuoti: affetti, amici, famiglia — è il loro fascino e la loro dannazione. Però in questo momento piano piano ci si rende conto che tante altre fasce di popolazione, nicchie e minoranze vogliono i loro spazi e li reclamano giustamente a gran voce. Quindi assistiamo spesso a fenomeni di gate-keeping, e a gente che prima pensava si potesse fare tranquillamente ogni genere di battuta e che fosse normale che una guerriera girasse con un bikini in cotta di maglia. Se adesso lei gira magari in armatura completa, ci si sente dire “Eh, però Lara Croft prima aveva le tette più grosse”. Abbiamo visto un sacco di polemiche nascere perché il personaggio di Lola Bunny nel nuovo Space Jam è meno sessualizzato rispetto al primo film, no?

Per par condicio (Space Jam Graphic Novel), seppur brevemente:

Oppure c’è il caso recentissimo di Horizon, per dire.

Trovare un antidoto ovviamente è difficile perché certe community ormai sono fatte in un certo modo. E se ci sono anche bellissime community piene di giocatori che si supportano e gente che chiede e riceve consigli, è chiaro che più aumentano le dimensioni di una community più è difficile tenere sotto controllo questi meccanismi umani standard. Però mi viene in mente una cosa: l’argomentazione-base in reazione al fastidio per i fischi per strada. Hai presente: “Eh, ma non tutti gli uomini sono così”? Ecco: c’è ovviamente chi dice “Eh, non tutti i nerd sono così”. È vero, non tutti i nerd sono così. Certo, ma quanto facciamo perché questi eventi siano meno frequenti? Quanto fa chi modera e gestisce le community, in questo senso, o anche chi semplicemente è all’interno della comunità? È molto bello dire “Io non sono così”: ma se qualcuno fa una battuta sessista e nessuno dice nulla perché vuole evitare polemiche, perché volutamente il pubblico ti fa comodo, perché alla fine la polemica è utile e purtroppo chi gestisce la community o i siti di informazioni spesso le rintuzza per il puro gusto di farlo — è chiaro che gli istinti bassi portano sempre lì. Certo è molto bello lamentarsi della community tossiche e poi non fare più di tanto per moderare i commenti e prendere posizione. La soluzione va trovata assieme e chiaramente deve arrivare da chi quegli spazi aperti li gestisce.

Con questa doppia intervista abbiamo messo moltissima carne al fuoco: spero di poter tornare presto, con voi, sugli ultimi argomenti che abbiamo toccato. Nel frattempo vi ringrazio di cuore!

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