Desertificazione – un’ottima ragione per rileggere “Dune” di Frank Herbert
Quello che Frank Herbert voleva fare era creare una mitologia ecologica: una guerra di Troia con gli Atreides al posto degli Atridi.
Quello che Frank Herbert voleva fare era creare una mitologia ecologica: una guerra di Troia con gli Atreides al posto degli Atridi.
Siamo in Oregon, l’anno è il 1957. Frank Herbert, di mestiere giornalista, si trova a Florence perché ha in mente un articolo intitolato: “Hanno fermato le sabbie in movimento” (They Stopped the Moving Sands) sulla stabilizzazione delle dune del deserto costiero. Non lo scriverà mai. Il pensiero dello scrittore, già autore amatoriale di fantascienza, da quella ricerca ne uscì solleticato da un interesse in più. Un interesse che lo renderà orgogliosamente progenitore del genere cli-fi con il ciclo di romanzi che scriverà qualche anno più tardi: Dune. Uno dei temi principali del ciclo è infatti il rapporto fra esseri umani e ambiente.
È incredibile come la resa filmica di David Lynch non tenga sufficientemente conto di questo aspetto, cruciale invece per la saga. Forse non fu capito, forse all’autore di Elephant Man interessava più il lato mitologico – al quale però sembra togliere tutta la solennità, riducendo tutto a un baraccone pop con in mezzo l’eroe senza macchia. Quello di Lynch è uno Star Wars alternativo, saga per altro che non ha mai rinnegato Dune come fonte di ispirazione. E che dire dell’idea mai realizzata da Jodorowsky: Dune come film “psicotropo” per parlare ai consumatori di erba degli anni Settanta della “costruzione di un messia”? Lo storyboard è pazzesco, una gioia per gli occhi. L’ecologia però di nuovo scende in secondo piano.
C’era quindi bisogno di un altro Dune cinematografico che facesse emergere il lato ecologico evidente nel ciclo partorito dalla fantasia di Frank Herbert? Assolutamente sì. Denis Villeneuve ha riempito egregiamente il vuoto lasciato da Lynch.
L’ecologia di Herbert necessita di una precisazione: per il Duca Leto, padre di Paul il protagonista, i membri della loro casata sono “farmers” e lo saranno anche sull’inospitale Arrakis, un pianeta totalmente desertico. Sia su Arrakis che altrove, i membri di casa Atreides renderanno il terreno funzionale alle loro attività. Dovranno solo fronteggiare differenti tipologie di problemi. È la stessa mentalità, questa, che porta a razionalizzare il territorio in un’ottica produttiva e squisitamente antropocentrica: una visione molto messa in dubbio dal pensiero ecologico attuale – intervenire su un ecosistema andrebbe fatto quanto basta e con cautela, tenendo conto dei rapporti intricati di ogni parte di esso. Il rischio di pensarla come il Duca si è poi materializzato negli attuali problemi del deserto dell’Oregon: Herbert certo non poteva sapere che quello stesso metodo che aveva colpito tanto la sua fantasia – fare barriera nel deserto con erbe aliene invasive provenienti dall’Europa per stabilizzare le sabbie ed evitare che le tempeste si abbattessero sulla costa – causerà decenni dopo danni all’ecosistema locale e alle piante native con cui le nuove si sono trovate a competere. Tutto ciò frutto della narrazione, oggi superata, che vede il deserto come un problema da risolvere e non un ecosistema ricco.
Del resto, è lo stesso meccanismo di chi abbatte alberi e si sente il cuore in pace per averne ripiantati altrove, senza tenere conto delle tempistiche di adattamento o del tempo che occorre a ricreare la ricchezza di un ecosistema. Secondo Veronica Kratz dell’Università di Carleton, bisogna sempre considerare che il pensiero ecologico di Herbert non era lontano dunque da quello del Duca Leto.
Tuttavia non è questo aspetto, piuttosto datato, che è stato sottolineato nel film di Villeneuve. Di Dune invece si conserva il tema attualissimo del doppio legame fra ecologia e profitto. Il pianeta Arrakis, sul quale viene innescata la guerra stellare che innerva la saga, è una distesa di deserto perché ciò è funzionale alla produzione di una spezia psicotropa importante per i corpi degli umani e per far viaggiare le navicelle. In sostanza la desertificazione di Arrakis è incoraggiata dal profitto che i precedenti governatori del pianeta, la casa Harkonnen, fanno dal commercio della spezia. I Fremen invece, gli abitanti originari di Arrakis, hanno laboratori dove coltivano piante per combattere la desertificazione del loro pianeta e per renderlo più vivibile. Le temperature diurne sono infatti inaffrontabili per i forestieri – almeno senza una speciale tuta.
L’immagine della spezia è polisemica: ci ricorda l’oro monoatomico degli dèi dei primordi, ma anche il petrolio. La tecnica dei Fremen invece è la stessa usata in Oregon.
In effetti, quello che Herbert voleva fare era proprio creare una mitologia ecologica: una guerra di Troia con gli Atreides al posto degli Atridi. Oggi, con il problema impellente del cambiamento climatico, la desertificazione voluta di Arrakis per fini commerciali assume una sfumatura ulteriore: la degradazione del suolo, la perdita di fertilità e la scarsità di acqua sono problemi che ci riguardano da vicino. In Europa il maggiore rischio di desertificazione è ad est e a sud. Il 20% del territorio italiano rischia di diventare incoltivabile: secondo il Cnr nel 2015 degradate e a rischio di desertificazione erano la Sicilia (al 70%), il Molise (al 58%), la Puglia (al 57%) e la Basilicata (al 55%). Sardegna, Marche, Emilia-Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania a seguire (30-50%).
Fra qualche decennio i Fremen, costretti a terraformare il loro stesso pianeta, potremmo essere noi. La tuta dei Fremen, che mantiene la temperatura e l’idratazione del corpo stabile, per sopportare l’agosto bolognese già occorrerebbe.
Come scriveva Silvia Peppoloni, l’interazione fra essere umano e natura gioca un ruolo fondamentale in questo processo. La siccità antropogenica si manifesta per cause molteplici: effetti del cambiamento climatico sul ciclo dell’acqua e quindi di eventi atmosferici estremi che inaridiscono il suolo, deforestazione, eccessivo sfruttamento delle falde acquifere, fertilizzanti che aggrediscono il suolo e contribuiscono alla perdita di biodiversità.
Herbert però, dal passato, ci mette in guardia anche dal rischio che leader carismatici strumentalizzino la causa green per questioni di potere. Scrive in Dune Genesis (citato qua in un paper di Ronnie W. Parkerson): “Il modo in cui ho concepito il mio supereroe mi fa temere che l’ecologia possa essere il prossimo simbolo sfruttato da demagoghi e ‘aspiranti-eroi’, da chi desidera il potere e da altri pronti a fare il ‘pieno di adrenalina’ nel lancio di una nuova crociata”. Oggi lo chiamiamo greenwashing. L’appropriazione impropria del “green brand” e il rapporto fra green e ricerca di potere è in effetti una delle sfide del nuovo ecologismo. Herbert l’aveva intercettata.
Arrakis è una bellissima immagine, potente. Il deserto infinito, il caldo ardente, la disidratazione, le tempeste di sabbia, gli Harkonnen che si preoccupano più della spezia che degli esseri umani… è particolarmente facile empatizzare con l’allusione costante al presente e al possibile futuro del Dune di Villeneuve. Quella di Lynch era una versione pop, quella del regista canadese già si nutre – e nutre a sua volta – l’immaginario dell’Antropocene.