L’opera di Elena Ferrante L’amica geniale è considerato una delle serie letterarie più importanti scritte nella nostra epoca. Essa è stata anche trasposta in una bellissima fiction sulla Rai in cui l’ottima regia e le intense recitazioni hanno saputo, a mio parere, rendere giustizia alle pagine dei libri.

Una apparente emancipazione femminile

I testi come la fiction spingono a porsi molte e differenti domande, l’opera infatti mette in campo una serie di questioni molto intense e tutte di grande rilievo, tuttavia, quello che maggiormente mi ha colpita, è stata la storia delle due protagoniste; il mio percepito è una vicenda di apparente emancipazione femminile: entrambe, infatti, sembrano scardinare le regole ribellandosi ai conformismi sociali e alle famiglie; tuttavia, sono sempre e comunque prigioniere di qualcosa. Di un qualcosa che non deriva necessariamente dal mondo esterno ma che è radicato in loro stesse, frutto del loro stesso grembo, dal quale non riescono mai a svincolarsi.

Lila è di fatto prigioniera del suo aspetto fisico, di una bellezza che crede di riuscire a gestire allo scopo di manipolare chi la circonda, ma è a prima ad esserne condizionata a causa dell’attenzione costante del maschio virile nella quale ella, anche quando sembra riuscita ad emanciparsene, ricade all’interno procrastinando dinamiche del passato che tanto aveva rinnegato.

Lenù, al contrario di Lila, riesce a proseguire gli studi fino a laurearsi a pieni voti. Sembra libera: finalmente uscita dal rione può esprimere se stessa nel pieno dei suoi desideri: tuttavia è schiava della cultura, schiava dell’immagine del maschio dominante – rappresentato nella storia da Nino, che le due amiche si contendono e di cui Lenù è infatuata fin dall’infanzia – che, come un demiurgo, sembra possedere facoltà di conoscenza infinita, agli occhi di Lenù, che vuole leggere quello che lui legge, rincorrere i suoi pensieri e le sue gesta. L’essere diventata scrittrice non è sufficiente, non la emancipa da quest’uomo che rimarrà sempre l’ombra a cui la sua vita e il suo pensiero saranno assoggettati.

La questione fondamentale dell’opera, quindi, non è quanto la società abbia impedito a queste donne di realizzarsi, quanto il sistema abbia piegato i loro sogni, ma quanto loro – senza neppure saperlo – avessero interiorizzato la struttura. Quanto non sapessero pensare ed agire al di fuori di essa con genuinità. Ciò che le incolla a una vita insoddisfacente non è quindi mosso dal motore sociale esterno (fatto comunque di ingiustizie, abusi, morti, terrore), ma da una mano invisibile che guida la loro percezione, giacché loro sono le prime a sentirsi donne là dove questa definizione è intimamente legata a una inferiorità oggettiva – morale, sociale, intellettuale – all’essere uomo.  

Per quanto l’epoca che oggi stiamo vivendo sia di fatto differente da quella narrata nell’opera della Ferrante, essa mi spinge comunque a riflettere su quanto le conquiste del femminismo siano in parte solo ad uso esclusivo di alcune donne e di alcune realtà (forse e forse neppure di quelle). Temo infatti che se ci spingiamo nei rioni di Napoli o anche in altri luoghi, in cui di fatto è più complesso entrare a contatto con una certa cultura, la condizione della donna sia ancora simile – fin troppo – a quella di anni fa, a quella che noi, donne emancipate, pensiamo che non esista più. Quella condizione in cui la donna è fatta per fare figli, in cui è inutile che sia studiata, in cui l’unico scopo della vita femminile è trovare l’uomo che la sostenga e la mantenga e, poco importa se non è troppo gentile con lei… (pensiamo al film capolavoro C’è ancora domani).

Temptation Island. Dinamiche aberranti

La donna continua a percepirsi donna, tanto che vorrei trovare una parola differente per definire, per definirmi. Quest’estate – per motivi personali – ho deciso di essere molto inclusiva: mi sono quindi spinta a guardare Temptation Island. Le dinamiche maschio-femmina (e femmina lo uso appositamente come sostantivo peggiorativo del concetto di donna) sono aberranti: queste femmine sono completamente dipendenti dai maschi come se essi fossero l’unica fonte attraverso la quale la loro esistenza possa avere una effettiva esegesi teleologica

E questi rozzi esseri umani dimostrano solo un profondo senso di possesso e non di amore nei confronti di una persona ridotta a oggetto spersonalizzato, umiliato e sottomesso. Nessuno sa amare. Le donne sono solo orpelli, al massimo trofei di cui vantarsi; donne completamente sformate dalla chirurgia estetica per assimilarsi a quel modello che tanto piace al maschio.

Ecco questa evoluzione della donna, non più regina del focolare, ma orpello dell’uomo, acquiescente compagna, complice delle sue avventure fuori dal letto di casa è stata trasmessa (e messa in onda) dalla becera cultura berlusconiana che ha trafitto la donna e la sua dignità ontologica nel peggiore dei modi possibili.

Essa, infatti, ha operato nel versante di una apparente inclusione quando si trattava invece di una oggettiva e ridicolizzante esclusione. (Per chi ha seguito Temptation ricordo la citazione più famosa dell’edizione alziamo i Tony dove Tony era uno dei protagonisti che si vantava di tradire la compagna e si compiaceva di considerare le tentatrici come meri corpi, utilizzati al solo scopo di compiacere il maschio dominante).

Il punto davvero difficile è comprendere a che punto siamo: noi filosofi parliamo di un mondo che purtroppo non rispecchia in alcun modo la realtà; come le protagoniste de L’amica geniale sono incarcerate da loro stesse, ciò vale anche per le nostre donne di oggi che non hanno ancora riconosciuto il pharmakon dell’emancipazione, quello vero: quello intellettuale, quello del pensiero.

E per questo intendo non pensarsi più attraverso la mente dell’uomo, ma riuscire a pensarsi attraverso loro nuove e proprie categorie. Ciò non accade nella realtà: essere emancipate non significa fare sesso come lo fanno gli uomini, lavorare come lavorano gli uomini, essere individualiste come lo sono i maschi, bensì pensarsi indipendentemente dal maschio.

Non è diventando uomo che la donna si emancipa, semplicemente dimostra di non sapersi costruire oltre l’immaginario che la cultura le ha imposto e le impone. Credo che sia questo il motivo del generale fallimento della liberazione femminile e del fatto che comunque e sempre l’essere donna implichi dei compromessi e delle difficoltà che nessun maschio incontrerà mai nel corso della sua vita.

Femminismo. Generiamo una nuova donna

Forse noi pensatori, noi filosofi, filosofe dovremmo ritornare alla terra, con i piedi per terra, perché negli stessi nostri atenei le dinamiche sono le medesime: è sempre l’uomo, il ben-emerito Professore – che porge il suo sguardo saggio sulla sapiente femmina che verrà premiata per la sua arguzia e generosità.

E questo è possibile perché siamo noi a permetterlo, perché sono ancora e sempre quei tacchi che ci mettiamo (i tacchi sono una creazione maschile quale metafora di fragilità, di incapacità di camminare da sole senza appoggiarsi al sicuro braccio di un uomo che ci sostiene) quei capelli che ci tingiamo, quella gonna corta che indossiamo che sono in parte segno di emancipazione, ma che ci inchiodano ancora e per l’ennesima volta a un immaginario imposto dall’esterno. Quei chili di troppo, quella cellulite, quel farsi bella. Cosa significa tutto questo?

Non esiste libertà al di fuori di una contingenza, ma cerchiamo di smetterla di fare in modo che la nostra contingenza sia l’uomo! Chi è donna? Cosa è donna? Dovrebbero essere le donne a rispondere e la risposta non dovrebbe darsi quale controlaterale del maschio né tanto meno come una identificazione al maschio, bensì dovrebbe essere un atto autonomo e creativo. La femmina, la donna deve ancora essere generata.

Allora ragazze: mettiamoci al lavoro!

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