La vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane è stata netta. Ha vinto non soltanto per il numero ottenuto di grandi elettori espressi dagli stati federali (312 contro i 226 di Kamala Harris, ben oltre il limite necessario di 270), ma anche come totale dei voti ricevuti sull’intero territorio nazionale (75,5 milioni contro i 72,3 di Harris).

I pronostici dei maggiori media americani sono stati rovesciati, e ad Harris non è servito neppure vincere nei maggiori centri urbani di stati tradizionalmente repubblicani e dove Trump nel complesso ha trionfato: nel Texas ad esempio, da sempre roccaforte del Gop e fornitore di tutti e 40 i suoi voti elettorali a the Donald, Kamala Harris è stata la prima scelta a Dallas, Houston, San Antonio e Austin. Successo inutile. Le maggiori città hanno votato democratico, il territorio ha scelto Trump. E questo è avvenuto praticamente ovunque.

La vittoria di Trump, le prime analisi e il cultural divide

Le prime analisi a caldo, poi prontamente rinnegate, hanno sottolineato con una certa supponenza questo esito, facendo intendere che esista un cultural divide tra gli elettori e elettrici democratic* e quelli repubblican*. Ma siccome sono i voti a stabilire chi vince in democrazia, e che questa è l’unico sistema che garantisce i diritti di tutti i cittadin*, i supporter del voto di qualità sono presto evaporati di fronte ad un’argomentazione elementare : un agricoltor* dell’Iowa equivale a un colletto bianco del Connecticut.

Ma basta questo per dire che la democrazia, formalmente rispettata, sia al sicuro? Qui c’è più di qualche dubbio. Trump ha vinto perché è stato ossessivo nell’instillare negli american* i timori di un’economia debole e traballante (ma l’inflazione è sotto controllo ed il debito, pur enorme, non è una minaccia incombente), ha amplificato il disagio delle classi medie e basse (il tasso di disoccupazione intorno al 4% significa statisticamente occupazione piena), ha evocato il fantasma di un’ America sempre meno rispettata e temuta in campo internazionale (sfidata da Cina e India e con due conflitti in corso che non vedono spiragli di conclusione), e minacciata nei suoi confini dall’immigrazione irregolare.

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Il potere dei social network

E in questa campagna è stato aiutato dal potere crescente dei social network, ormai diventati la primaria fonte di informazione di gran parte della popolazione. E qui entra in gioco Elon Musk.

Il miliardario sudafricano, l’uomo più ricco al mondo, padrone della tecnologia spaziale e visionario progettista del futuro, ha appoggiato in maniera entusiastica la campagna di Trump, offrendo la sua persona e i suoi milioni al candidato repubblicano di ritorno alla Casa Bianca. Consapevole che avrebbe ottenuto – come è puntualmente avvenuto – qualcosa in cambio. E ha usato in maniera spregiudicata X, il social network ex Twitter comprato 2 anni fa per 44 miliardi di dollari e prontamente ribattezzato per sancirne la cesura con il passato (la lettera X è un simbolo che piace, compare anche nel programma spaziale di Musk. Il passero cinguettante simbolo del vecchio Twitter era troppo pacifico…).

Rapidamente X ha cambiato piume ed è diventato uno strumento divisivo, subdolo e capace di veicolare il consenso. The Guardian ne ha abbandonato l’uso dicendo:

“X è una piattaforma tossica ed il suo proprietario è stato capace di usare la sua influenza per modellare il discorso politico”.

La formula perfezionata da Musk è stata quella di riuscire a far credere a moltissim* iscritt* ad X di essere parte di una comunità, di poter dialogare da pari con i potenti e magari consigliarli, di avere accesso alla loro considerazione, di essere sedut* allo stesso tavolo e vicini al capotavola, anzi di sedergli a fianco, decisivi nel suggerirgli come guidare le scelte politiche, etiche e sociali dei governi. Musk è stato abile nel non fargli capire, invece, di essere quell* che il pranzo lo servono al padrone di casa, utili fino a che non si è finito di mangiare.

É la deriva su cui sta precipitando il sistema dei social network: che ormai riesce far considerare il numero di follower come un voto di merito, espresso e ricevuto. E che quando raggiunge livelli particolarmente elevati fa ritenere i beneficiari di quella popolarità come i detentori di una sorta di plebiscito universale, che conferisce un potere che sfugge ad ogni controllo.

È successo in Italia con un pandoro, ed è grave, ma lì gli anticorpi hanno funzionato. Se succede invece al confine con la politica è gravissimo, perché il sistema-plebiscito soffoca gli stessi anticorpi. Diventa una forma deviata di pseudo-democrazia diretta, che in realtà è più simile all’ordalìa. Dove il medievale giudizio di Dio è esercitato dallo stesso titolare dei follower.

Ecco allora che Musk, da privato cittadino, interviene sulla demografia mondiale per scongiurare la fine dell’umanità; che sogna di colonizzare Marte; che interviene, non più tanto da privato cittadino, sulle vicende interne italiane attaccando i giudici che non sono stati eletti. Ritiene di poterlo fare perché ha 204 milioni di follower su X (Bot compresi).

Per fare dei raffronti americani Donald Trump ha 94 milioni di follower, Kamala Harris 21 milioni, Barack Obama 130 milioni. Numeri impressionanti, se si pensa che nel mondo Papa Francesco, capo della chiesa cattolica mondiale, col sito Pontifex ha appena 5 milioni di follower.

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Follower uguale potere?

Follower uguale potere, è la formula malata che oggi regola i rapporti di forza. Ma da sola non basta a minacciare la democrazia. Può farlo però se c’è la fusione tra business e profitto, potere, tecnologia. Il business ed il profitto creano potere, il potere li protegge e se ne alimenta. Ed entrambi hanno oggi la propria base nella tecnologia, che in assenza di barriere morali di protezione, soprattutto sull’intelligenza artificiale, crea senza freni ricchezza che a sua volta crea dipendenza e consenso. Oggi tutti questi elementi sono insieme nelle mani di poche persone, con milioni di follower. Uno è il prossimo presidente degli Stati Uniti, businessman e miliardario. Un altro è il suo sostenitore, l’uomo più ricco al mondo, che avrà un incarico di alto livello nell’amministrazione americana.

Fa paura che siano vicini sul tavolo del paese più potente del mondo?

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