Sono trascorse poco meno di tre settimane dal giorno in cui abbiamo registrato l’ascesa della prima donna della storia d’Italia al ruolo di Primo Ministro. Da quel giorno, una donna è a capo delle nostre istituzioni governative, e nulla di catastrofico è accaduto.

Pensiamoci bene: una donna siede sullo scranno più alto del Paese dopo aver trascorso decenni dedicandosi ad una sua passione, la politica. L’ha fatto seriamente, preparandosi, giocando una partita difficile, seguendo le regole in un contesto prevalentemente composto da uomini troppo sicuri di sé, spregiudicati e troppo poco inclini a riconoscere le proprie inadeguatezze professionali e politiche.

Sono certa che la fatica che questa donna ha dovuto sopportare, ipotizzando di poterla in qualche modo quantificare, è nettamente superiore rispetto a quella che ha investito un qualsiasi suo competitor maschio.

Eppure, nemmeno quando per la prima volta una donna ci rappresenta nel mondo e lo fa dando sfoggio delle proprie capacità – penso banalmente alla fluidità con cui parla in varie lingue, a dispetto della quasi totalità dei suoi predecessori uomini che spesso ci hanno fatto vergognare per pronunce degne di un cartone animato o per mutismi imbarazzanti – nessuno esulta e nessuno prende quella donna ad esempio per indicare alle bambine di oggi, donne di domani, un modello positivo da seguire. Una riflessione che lascia per una volta, fuori dalla porta, le idee politiche e che mette al centro le poche donne che nel nostro Paese riescono a sfondare il soffitto di cristallo.

Partendo dall’ascesa della prima donna premier, vorrei soffermarmi su un profilo che ritengo cruciale e che riguarda la fatica che le donne affrontano per giungere ai vertici delle istituzioni o delle aziende. I dati, come sempre, ci aiutano a tradurre in numeri e percentuali lo sforzo compiuto quotidianamente da ogni donna, che in qualsiasi contesto è costretta a combattere ostacoli, pregiudizi e veti incrociati.

Sulla politica i dati sono tanto noti quando impietosi, specie se consideriamo la legislatura appena iniziata: le deputate e le senatrici elette sono il 31% del totale rispetto al 35,3% della passata legislatura. La situazione nelle aziende italiane, invece, è più difficilmente analizzabile a causa della scarsità di dati in nostro possesso.

Tra i pochi elementi a nostra disposizione, sappiamo che solo il 7% delle donne è CEO e che solo il 37% di loro siedono nei Cda. Quest’ultimo è frutto della legge Golfo-Mosca, introdotta poco più di 10 anni fa, che impone quote crescenti di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate. Dati comunque insufficienti per poter analizzare con la dovuta compiutezza il ruolo delle donne nelle aziende italiane.

Partiamo da una tendenza che si riferisce al caso americano. Secondo il rapporto Women in the Workplace sempre più donne che si trovano ai livelli apicali delle aziende decidono di licenziarsi se l’azienda per la quale lavorano non si trova in linea con le loro prospettive di crescita o quando non attua politiche aziendali orientate alla piena parità, alla flessibilità lavorativa, alla creazione e valorizzazione del welfare aziendale e al training dello staff maschile volto a combattere la persistenza di stereotipi che ancora oggi determinano una crescente perdita di talenti femminili.

È molto importante considerare questi fenomeni come campanelli di allarme, che dovrebbero servire ad aziende e governi per affrontare quella che oggi appare solo come una tendenza americana ma che presto, emergerà anche in Italia.

Pensiamo solo a quanti, uomini e donne, nel post pandemia hanno deciso di licenziarsi perché poco stimolati e fin troppo oppressi da routine e carichi di lavoro pesanti. La motivazione data dalla maggior parte di questi fa riferimento alla ricerca di una dimensione maggiormente compatibile con le proprie passioni e con tempi di lavoro bilanciati e rispettosi della dimensione privata. Nell’ultimo anno il 75% dei lavoratori italiani in età compresa tra i 26 ed i 35 anni si sono dimessi (dati indagine AIDP).

È dunque in atto un processo riformatore che trova nelle aziende il giusto luogo di riscrittura della cultura lavorativa e del superamento di stereotipi che allontanano o rallentano la crescita di tutti, specie quella delle donne.

Come dicevamo, non vi sono sufficienti dati ma stando a studi condotti da università e centri di ricerca, possiamo affermare che le aziende nelle quali viene impiegato un elevato numero di donne nelle posizioni di vertice, sono le stesse che registrano incrementi nelle performance ed una più equa distribuzione salariale.

A tale riguardo consiglio la lettura di un interessante articolo titolato Do Female Executives Make a Difference? The Impact of Female Leadership on Gender Gaps and Firm Performance, pubblicato da The Economic Journal ad agosto 2019, dal quale emergono con evidenza stime molto interessanti circa gli effetti positivi correlati al maggior impiego di donne in azienda.

Le stime implicano che la produttività di un’impresa aumenta con un CEO donna quando almeno il 20% della forza lavoro è femminile. L’incremento è superiore al 14% per le imprese con una forza lavoro che è per almeno il 20% rosa, mentre considerando tutte le aziende – anche quelle con un numero minore di donne tra i dipendenti – l’incremento sarebbe comunque del 6,7%.
Quindi, appare verosimile pensare che per un maggior impiego di donne nei ruoli di vertice possa corrispondere una significativa crescita in termini di fatturato e qualità delle politiche aziendali.

In assenza di ulteriori dati, un dubbio permane: è il maggior numero di donne in ruoli di vertice a determinare un miglioramento delle performance aziendali oppure sono le aziende con performance migliori a decidere di avere più donne al comando?

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