“Babbo, Ariete piace anche a te, vero?”

Mia figlia Penelope, 11 anni, in prima media, qualche giorno fa si è degnata di comunicarmi una delle sue prime passioni musicali. Chiaramente subito dopo questa veloce confidenza, se ne è tornata in camera sua, a farsi i fatti suoi, con le sue amiche, in infinite chiamate piene di risate e infiniti compiti, che almeno quelli da fare ci sono, in questo complicato inverno 2020 – 2021.

Per mia figlia sono molto contento. Perché Ariete spacca. Fa musica splendida. Come Calcutta e come pochi altri, oggi, sa fare quel pop rock che se ne frega delle radio e quindi va benissimo anche in radio. Se su Spotify metti il suo ultimo EP (non so manco se si chiamano più così, non è un album, sono sei pezzi), sono tutti singoli, non c’è un calo di efficacia in nessuno dei brani. Il punk è altrove, ma non è musica pensata solo per avere successo. Ogni parola, ogni nota ha senso.

Il problema è che non so se sia un buon segno, per me, a 48, questa insana passione per Ariete. Una passione quasi senile o almeno fuori tempo massimo. Arriva troppo tardi, 24 anni dopo la laurea in Musica al DAMS di Bologna, almeno una trentina dopo tante prove con i vari gruppi nelle cantine fiorentine, un paio pure accanto a Ghigo Renzulli dei Litfiba che provava con la band senza Piero Pelù. Forse si sono sciolti proprio per il volume folle a cui Renzulli teneva la chitarra.

Possibile che mi sia innamorato (musicalmente) di Ariete, io che manco sapevo fino a un minuto fa che avesse fatto X-Factor? Non sapevo neppure che su Facebook avesse solo 1.100 fan. Ma in fondo è ovvio. Su Facebook ci sono i miei coetanei, i vecchi e lei è una ragazzina. Tra Youtube e Spotify siamo già a milioni di ascolti, perché è una ragazzina che ha già un pubblico.

E’ un amore platonico e folle, il mio. Ma i motivi musicali ci sono. Perché oggi di rock se ne sente poco. E Ariete è rock. Anche con pochi capelli in testa, con un passato discotecaro, con il chiodo perso chissà dove (in ecopelle tra l’altro, quasi indegno), sono e sarò sempre un rockettaro. Al liceo riuscii a trasportare tutta la mia classe del D’Azeglio al primo concerto torinese di Ligabue, che mi aveva colpito con Balliamo sul Mondo e affondato con Non è tempo per noi. Aveva solo il primo album in repertorio più un paio di pezzi.

Oggi che Liga ha i capelli bianchi, mica ho tempo per lui e le sue ovvie malinconie, scelgo quelle da ragazzi di Ariete, che ovviamente è oggi come ero io allora. Gliel’ho anche scritto su Instagram: “guarda che hai sbagliato, dopo il liceo classico ho fatto il DAMS, non Belle Arti, cambia il testo della canzone”.

Avrei potuto anche scriverle altro, ad esempio quelle feste non c’è bisogno di ricordarle nelle canzoni, perché te le ricordi per sempre; che di solito quando guidi senza patente non ti beccano mica, ma devi andare molto piano; che quasi tutti gli amici ti mollano o li molli, ma qualcuno resta.

Per fortuna mi sono fermato in tempo, sarei sembrato uno stalker. Qui sono probabilmente ridicolo, ma ho almeno un po’ di dignità. Esattamente come dicevano i Pink Floyd in Time, mi posso anche disperare per non aver combinato gran che nella vita, per aver perso il colpo di pistola che dà il via alla corsa, ma accidenti. Ho la mia disperazione, ma quieta. Molto inglese.

Perché cavolo impazzisco per ‘sta ragazzina che canta con un bell’accento romano? Il problema è che non lo voglio sapere. Mi interessa molto di più fare air guitar in salotto, la mattina, quando mia figlia è a scuola, con mia moglie al lavoro. A un volume vergognoso. Pronti, via.

Two, Three, Four.

“Ho 18 anni e non sono come gli altri
Ma non sai quante volte c’hanno provato a cambiarmi
E che ci posso fare, se non faccio per voi”

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