Negli ultimi tempi le drammatiche notizie sulle guerre in corso, prima in Ucraina e ora a Gaza (senza scordare il meno mediaticamente attraente Sudan e altre) hanno oscurato dai media il tema del riscaldamento climatico e delle sue conseguenze, ricordato solo marginalmente nel caso di alluvioni e disastri che abbiano provocato vittime e ingenti danni.

Eppure, come abbiamo già ricordato in precedenti nostri articoli, la relazione biunivoca esistente tra guerra e crisi climatica è evidente: le guerre si scatenano per accaparrarsi le risorse naturali e si combattono [anche] utilizzando risorse naturali. Ad esempio incendiando pozzi di petrolio (Iraq-Guerra del Golfo Persico-2003) o negando le forniture idriche, il cibo, l’elettricità (Gaza-2023- E nelle acque territoriali di Gaza sono stati trovati giacimenti di gas che fanno gola a molti) od occupando centrali nucleari e distruggendo dighe (Ucraina 2022-23). Tutti eventi che, guarda caso, hanno devastanti impatti per l’emissione di gas climalteranti e per la distruzione di ecosistemi naturali. Senza parlare degli impatti della distruzione di edifici e infrastrutture e della loro ricostruzione.

Ciò nonostante fin dal protocollo di Kyoto del 1997 scaturito dalla COP3 (la terza Conferenza delle Parti), le emissioni militari sono sostanzialmente escluse dai vincoli di comunicazione e dai trattati sul clima. A dimostrazione di quanto i potenti della Terra siano condizionati dalla forza dei militari e delle grandi multinazionali del fossile.

Prendendo in considerazione solo gli USA, se l’esercito statunitense fosse una nazione, sarebbe il quarantasettesimo più grande emettitore di gas a effetto serra al mondo, ovvero, più di paesi come la Nuova Zelanda, la Svezia, la Norvegia, la Finlandia, il Perù, il Marocco e l’Ungheria. E le cifre prese in considerazione, va precisato, si riferiscono alle sole emissioni derivanti dall’uso del carburante. In tempo di pace. Pensate in tempo di guerra.

Si stima che il comparto militare mondiale generi più del 5% delle emissioni di gas serra globali.

Quindi la battaglia tra nazioni (ma non tra popoli) per le risorse porta a distruggere le risorse stesse e accelera drammaticamente l’impoverimento della Terra (già oggi occorrerebbero quasi 2 Terre per rigenerare le risorse che l’umanità consuma in un anno).

Nel saggio Effetto serra, effetto guerra di Antonello Pasini e Grammnos Mastrojeni, si parla del clima impazzito, di ondate migratorie, di conflitti.

Di fatto la logica è ancora mors tua, vita mea. Impoverisco un’intera popolazione per avere qualche cosa in più da usare per fare profitto, per garantirmi un benessere. Ma non siamo più a 3000 anni fa in cui si potevano lasciare lande desolate, distrutte dall’azione dell’uomo senza preoccuparsi delle conseguenze. Non possiamo più cospargere di sale Cartagine.

Ora tutto è interconnesso, le conseguenze dell’azione dell’uomo si manifestano a migliaia di chilometri di distanza. La guerra a Gaza (o in Sudan, Ucraina, Etiopia, Congo, Myanmar, Yemen) non solo uccide migliaia di persone e rappresenta un crimine contro l’umanità ma acuisce anche le devastazioni degli eventi estremi e aggrava le inondazioni, accelera il riscaldamento climatico e lo scioglimento dei ghiacci.

I punti di non ritorno, la deriva

In una parola, avvicina drammaticamente il raggiungimento dei punti di non ritorno, cioè il momento in cui non saremo più in grado di invertire la deriva che ci sta portando a un riscaldamento talmente forte da rendere inabitabili larghe porzioni di territorio. Cosa che stiamo già vedendo: il lago Ciad ha perso il 95% della sua superficie rendendo improduttive le terre circostanti e portando gli agricoltori a emigrare verso l’Europa o a arruolarsi nelle milizie islamiche.

In un recente evento pubblico il premio Nobel Giorgio Parisi ha espresso il seguente pensiero: non è detto che l’umanità si estinguerà per causa diretta della crisi climatica, potrebbero essere i conflitti che scoppieranno per spartirsi le risorse residue a causa del fatto che grande parte della Terra diventerà per noi invivibile a causa della crisi climatica.
Ma questo vorrebbe dire avere una prospettiva ancora più triste: fame, sete, black-out, migrazioni, furti, violenze, sopraffazioni. Un imbarbarimento dei rapporti umani. Le sofferenze che sta subendo la popolazione di Gaza sono un esempio di quello che potrà accadere su scala ancora maggiore.

Ridistribuire le ricchezze, ridurre i consumi

Che possiamo fare allora? Una strada è quella di ridistribuire le ricchezze (ora il 10% più ricco della popolazione è responsabile di quasi il 50% delle emissioni climalteranti), ridurre i consumi inutili, rinunciare all’energia fossile ma soprattutto rinunciare ad arricchirsi con le risorse di tutti e ricreare il senso di comunità e di bene comune: l’acqua, le energie rinnovabili, le risorse alimentari sono beni comuni che devono essere usati per i bisogni primari di tutti e non per l’arricchimento di pochi.

Il senso di collettività, la solidarietà tra comunità e tra popoli permette di ridurre le tensioni ripartendo equamente le risorse disponibili ed evitando quindi i conflitti scatenati da pochi per impossessarsi delle risorse comuni a danno di tanti. Promuoviamo invece le Comunità Energetiche Rinnovabili e Solidali, i gruppi di autoconsumo, la collaborazione tra agricoltori, cioè tutte le forme di collaborazione e solidarietà che nascono dal basso.


Guido Marinelli per conto di Valeria Belardelli

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